Dopo anni di silenzio si ritorna a parlare di un femminicidio che aveva scosso (e diviso) l'opinione pubblica nell'estate 2007. La giovane età dei due protagonisti, ragazzi brillanti a giudicare dai loro percorsi scolastici, Chiara Poggi, la vittima (26 anni, laureata in Economia, lavorava come impiegata) e Alberto Stasi (24, studente modello di Economia), fidanzato assassino secondo il verdetto emesso dalla Cassazione nel 2015, è un elemento che allora aveva attirato l'attenzione di tutta Italia, facendo diventare il delitto di Garlasco (avvenuto nel mattino del 13 agosto di 15 anni fa) un caso di cronaca nera di grande rilevanza mediatica capace di tenere incollati sullo schermo telespettatori di vari programmi. Qualche settimana fa Alberto Stasi, oggi 38enne, è comparso in tv, in una trasmissione dedicata agli errori giudiziari, o presunti tali: con l'aplomb che l'ha sempre contraddistinto si è concesso all'intervista nel carcere di Bollate, dove sta scontando la condanna definitiva a 16 anni (fine pena a dicembre del 2031) per l'omicidio della ragazza. Perché parla dopo tanti anni? L'ossessione di Alberto Stasi è proclamarsi «innocente», ormai la missione della sua vita. Non urla, non grida la sua innocenza, come ci sarebbe da aspettarsi da uno che, così giovane, sta perdendo i migliori anni della vita, rinchiuso in una cella, dove si è sempre dichiarato non colpevole. Però ribadisce con fermezza e calma: «Sono innocente».

Alberto Stasi (archivio US)
Alberto Stasi (archivio US)
Alberto Stasi (archivio US)

Il delitto di Chiara Poggi è nato con tante storture ed errori investigativi (mai ritrovato o identificato l'oggetto contundente, probabilmente un martello, che ha colpito a morte la giovane), concluso dopo tanto penare nelle aule giudiziarie e nei diversi gradi di giudizio, con la condanna a 24 anni del fidanzato Alberto (senza aggravanti), pena poi scontata di un terzo col rito abbreviato. Ascoltare le parole di questo giovane detenuto, colpevole secondo la legge, mentre la foto di Chiara con i suoi occhi azzurri è in primo piano, è un pugno nello stomaco e in tanti che hanno visto l'intervista anziché ricredersi si sono convinti ancor più della colpevolezza di Stasi, che ha sempre avuto un comportamento così gelido da attirare sospetti anziché respingerli. Eppure ascoltandolo dopo tanti anni il suo ruolo non è ancora completamente nitido, perlomeno non quanto lucido è il suo pensiero e la sua mente oggi anche nel ripercorrere a ritroso le tappe del processo che l'hanno visto assolto due volte prima della condanna in Cassazione, dove i giudici hanno confermato la sentenza di appello bis. «Nell'immaginario comune un innocente in carcere è qualcuno che soffre all'ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi», è la sua prima riflessione ai microfoni tv.

L'intervista tv

«Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando», prosegue Stasi. «Perché ho deciso di parlare oggi? Per dare un senso a questa esperienza, perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, voglio dire, se il sistema che c'è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa». Nessuna parola per la sua ex fidanzata. A molti telespettatori sembra strano che non le dedichi manco un pensiero, Alberto Stasi è freddo, calmo come l'abbiamo conosciuto sugli schermi fin dal giorno del delitto. Quel 13 agosto 2007 di un'estate molto calda: il paese, Garlasco, è spopolato, le strade deserte prima di ferragosto e gli abitanti in fuga verso il mare. Chiara era sola in casa e apre la porta a qualcuno, il suo carnefice. Possibile che non fosse Alberto, con la sua bicicletta nera risultata parcheggiata fuori dall'abitazione? Difficile crederci, anche perché il movente, per un ragazzo dalla faccia pulita e apprezzato da tutti come era lui, c'era eccome: una cartella piena di foto porno di minorenni sul pc. Chiara l'avrebbe scoperto e perciò era decisa a lasciarlo. Il cadavere è a terra, vicino all'ingresso di casa, quando lo vede Alberto Stasi - secondo il suo racconto agli inquirenti - ma non abbraccia quel corpo, la sua fidanzata, come chiunque avrebbe fatto con il proprio amore. Lui no, scappa via. Il resto poco conta, ma questo è l'ennesimo femminicidio che in Italia funesta la cronaca e dove l'unico colpevole è, ancora una volta, un compagno, il fidanzato in questo caso, in altri il marito, l’amante, la persona con cui la vittima condivideva la vita. Nessuna scusante, l’opinione pubblica si erge a giudice: è un assassino e basta. Eppure l’imputato si proclama innocente, vittima di un errore giudiziario. E vuole gridarlo a tutti, per tentare di uscirne pulito, ma per Chiara non versa una lacrima né un ricordo del loro amore, rivelatosi malato.

Lunga scia di sangue

Si proclama innocente anche il vigile del fuoco che ha strangolato Elena Ceste, 36 anni e quattro figli, ritrovata cadavere il 18 ottobre 2014 nel rio Mersa, nelle campagne di Costigliole d’Asti. A ucciderla è stato il coniuge, Michele Buoninconti, l’uomo che davanti ai microfoni e taccuini piangeva per la scomparsa misteriosa della moglie, tutta casa, figli e marito. Solo nel maggio 2018 Buoninconti veine condannato a 30 anni di carcere, pena che sta scontando ad Alghero. Una storia che ritorna alla ribalta della cronaca perché ci sono di mezzo quattro bambini a cui è stata strappata un’infanzia felice e il padre, vigile del fuoco, è chiamato a provvedere al loro mantenimento così come a versare quegli 8mila euro di Imu per la villetta di famiglia, dove ormai non ci abita più nessuno visto che i figli, all'epoca tutti minorenni, sono stati affidati ai nonni materni con i quali vivono.

Elena Ceste (archivio Us)
Elena Ceste (archivio Us)
Elena Ceste (archivio Us)

Particolari che la cronaca rilancia trovando lo spunto per riparlare, ancora in questi giorni, di un femminicidio che aveva sorpreso un tranquillo Comune piemontese, dove tutti si conoscevano e tutti sapevano. Sapevano e le voci correvano nel paese: Elena Ceste tradiva il marito. Tradimenti che cominciavano a mettere in imbarazzo la vittima, sorpresa da qualche compaesano appartata con l’amante di turno. Si era pensato che questo fosse il motivo della sua scomparsa o che, a causa della crisi profonda in cui era caduta proprio per essere sulla bocca di tutti, senza alcun rispetto per la sua privacy, avesse potuto per questo farla finita. Invece a ucciderla è stato Michele Boninconti, padre e marito padrone, con abitudini maniacali come quella di segnarsi tutto nell'agenda, dalle faccende domestiche alla sparizione della moglie. Il 24 gennaio 2014, quando la moglie 37enne scomparve dalla loro casa di Costigliole d’Asti, aveva annotato questo appunto da brivido: “Dato da mangiare alle oche, scomparsa Elena”. Ora è in carcere, secondo lui da innocente, ma non per i giudici: intanto si sta per laureare in Economia e segue i detenuti negli studi.

Sono le storie che più hanno colpito l'opinione pubblica, forse perché i protagonisti sono gente normale, come noi e i nostri vicini di casa. Chiara Poggi, Elena Ceste, Roberta Ragusa, altro femminicidio che ha tormentato gli inquirenti e di cui si riparla in questi giorni con documentari che ne ripercorrono la vicenda prima di arrivare alla condanna del marito, Antonio Logli.

Roberta Ragusa (Ansa)
Roberta Ragusa (Ansa)
Roberta Ragusa (Ansa)

Sentenza confermata dalla Cassazione nel 2019, dopo oltre sette anni da quel tragico 13 gennaio 2012 che si è portato via la 44enne di Pisa. È venuto fuori tutto su questo omicidio, che Logli aveva l’amante (Sara Calzolaio, la baby sitter dei suoi figli), che l’amante subito dopo la sparizione di Roberta Ragusa era andata a vivere nella casa familiare in provincia di Pisa e che i coniugi avevano problemi economici. Ma non il cadavere: il corpo di Roberta non è stato mai trovato. Ipotesi, congetture, misteri che, ancora oggi, riaffiorano e infittiscono la matassa sempre più intricata di un ennesimo femminicidio firmato dal marito della vittima. Logli è nel carcere di Massa, dove sta scontando la condanna a 20 anni inflitta dalla Cassazione nel 2018, dopo un lungo iter investigativo ricco di contraddizioni e che non sarà del tutto concluso finché non si troverà il corpo della 44enne.

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