Era facile pensare che il ritorno al passato avrebbe generato ferocia, distruzione, morte. Sebbene, una volta tornati al potere nell’agosto di un anno fa, i talebani avessero promesso di rispettare i diritti delle donne e la libertà di stampa e un’amnistia per i funzionari del governo civile. L’Afghanistan è piombato in dodici mesi di autentico terrore, caratterizzati dalla violazione dei diritti umani e soprattutto di quelli delle donne.

 In un documento diffuso a Ferragosto e intitolato “Il dominio dei talebani: un anno di violenza, impunità e false promesse”, Amnesty International ha denunciato ogni sopruso, compresa la «massiccia impunità nei confronti di coloro che hanno commesso torture, uccisioni per motivi di rappresaglia, sgomberi forzati di oppositori».

Dirigenti e funzionari della organizzazione non governativa che si batte per la difesa dei diritti umani nel mondo non usano mezzi termini per definire il ritorno a un passato che dopo due decenni di cambiamenti si sperava ridotto a un brutto ricordo. «Un anno fa i talebani s’impegnarono pubblicamente a proteggere e a promuovere i diritti umani. Invece, la velocità con cui stanno smantellando 20 anni di passi avanti è impressionante. Ogni speranza di cambiare le cose è rapidamente svanita. I talebani governano mediante una violenta repressione nella completa impunità», ha dichiarato Yamini Mishra, direttrice di Amnesty International per l’Asia meridionale.

«Detenzioni arbitrarie, torture, sparizioni, esecuzioni sommarie sono tornate all’ordine del giorno. Le donne e le ragazze sono state private dei loro diritti e il loro futuro, senza accesso all’istruzione e senza la possibilità di partecipare alla vita pubblica, si prospetta gramo», ha aggiunto Mishra.

La repressione messa in atto nei confronti degli oppositori del regime è stata durissima. I talebani hanno vietato ogni manifestazione di dissenso, comprese quelle pacifiche e, quando la gente è scesa in piazza, hanno reagito picchiando i cittadini che protestavano o sparando contro di loro. Amnesty ha registrato episodi di questo genere in diverse città. Pesanti anche gli attacchi contro la libertà di espressione e la libertà di stampa. «Il giro di vite dei talebani – si legge in un documento della Ong - ha preso di mira difensori dei diritti umani e attivisti della società civile, molti dei quali hanno subito intimidazioni e minacce, sono stati arrestati e persino uccisi solo a causa del loro lavoro in favore dei diritti umani. Il 19 settembre 2021 il Centro governativo per l’informazione e la stampa ha emesso un decreto dai contenuti vaghi col quale si vietava ai giornalisti di pubblicare storie “contrarie all’Islam” o “offensive nei confronti di figure di rilevanza nazionale”».

Sono stati oltre ottanta, in un anno i giornalisti arrestati e torturati solo perché hanno raccontato delle proteste pacifiche.  «Mi hanno picchiato e frustato così duramente sulle gambe – ha raccontato un cronista ad Amnesty - che non riuscivo a stare in piedi. I miei familiari hanno firmato un documento in cui c’era scritto che, dopo la mia scarcerazione, non avrei parlato di cosa mi era successo; se l’avessi fatto, i talebani avrebbero avuto il diritto di arrestare tutta la mia famiglia».

Ha toccato il cuore degli italiani di recente la testimonianza resa a L’Aquila da una ragazza di 27 anni in fuga dall’Afghanistan. «Io, parte di quella nuova generazione costretta a lasciare il mio Afghanistan, chiedo con forza una società più pacifica, più inclusiva, più unita e lotto per ottenerla». Kawsar Abulfazil, 27 anni, giunta in Abruzzo a fine luglio grazie ai corridoi umanitari di pace della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e alle attività di accoglienza della Casa del volontariato si è lasciata alle spalle il regime talebano che ha provato a combattere attraverso il suo lavoro di program analyst per l'UNWomen, l'organo delle Nazioni unite per l'uguaglianza di genere e l'emancipazione delle donne. «Il mio lavoro — ha spiegato recentemente la giovane donna — riguarda in particolare il supporto alle donne afghane. Le recenti brutalità del regime talebano nei confronti delle donne mi hanno motivato ancora di più a lottare contro le disuguaglianze: le donne non escono di casa senza "mahram", l'uomo che accompagna, non hanno accesso facile alla cultura o permanenza serena nei luoghi di lavoro. Ogni giorno, quando ricevo lettere da parte di donne che vivono in Afghanistan, fatico a trattenere le lacrime».

La storia di questa giovane non è che una delle tante vissute dalle donne soggiogate dai talebani fin dalla loro presa di potere. Nulla è cambiato sotto il sole di Kabul e la costante attenzione posta da Amnesty international verso le violazioni dei diritti umani in quel paese contribuisce a spezzare anche troppi silenzi, evita che cali la soglia dell’attenzione.

Amnesty International chiede ai talebani di porre immediatamente fine alle violazioni dei diritti umani e ai crimini di diritto internazionale. In quanto autorità di fatto, devono urgentemente ripristinare, proteggere e promuovere i diritti della popolazione afgana. Ecco il testo integrale dell’appello lanciato dall’organizzazione umanitaria. «Chiedi alle autorità talebane di rispettare e garantire la protezione dei diritti umani in Afghanistan. Agisci ora ed esorta i talebani a: porre immediatamente fine alle gravi violazioni dei diritti umani in atto in Afghanistan, comprese rappresaglie e attacchi a minoranze etniche e religiose, donne e bambine, persone Lgbtqia+, difensori/e dei diritti umani, attivisti/e della società civile, giudici, avvocati/e, ex funzionari/e del governo, giornalisti/egarantire alle donne e alle ragazze tutti i loro diritti, compreso l’accesso all’istruzione per le ragazze di tutte le età, riaprendo immediatamente tutte le scuole e le università, garantendo l’accesso all’assistenza sanitaria e consentendo alle donne di tornare al lavoro; garantire i diritti della popolazione afgana alla libertà di espressione e di associazione. I rapimenti, le detenzioni arbitrarie e le percosse contro giornalisti/e ai danni di/delle manifestanti pacifici devono finire; istituire meccanismi efficaci e trasparenti di indagine e di accertamento delle responsabilità che garantiscano giustizia per le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra inclusi – a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, sparizioni forzate, arresti arbitrari, detenzioni illegali, omicidi extragiudiziali – attraverso processi equi, senza ricorso alla pena di morte».

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