Da cinque anni a questa parte le donne dell’Arabia Saudita possono guidare. Ma per sposarsi occorre loro il consenso di un parente maschio. Aprire un conto in banca? Non se ne parla. E l’autorizzazione maschile serve anche per viaggiare, lavorare, istruirsi e soprattutto sposarsi. Una delle monarchie più retrograde del pianeta continua a tenere soggiogata l’altra metà del cielo, sulla base di un integralismo cieco e senza senso, in base al quale è legittimato ogni tipo di repressione del dissenso e la pena di morte non soltanto resta in vigore ma è applicata sempre di più. L’Arabia Saudita ha sostanzialmente il numero delle esecuzioni in un anno: erano 65 nel 2021 sono diventate 196 nel 2022: le sistematiche violazioni dei diritti umani colpiscono soprattutto le donne. Per le quali criticare il governo sui social media può portare a una condanna a quasi 30 anni di carcere. Amnesty International, l’organizzazione non governativa che si batte instancabilmente a difesa dei diritti dei più deboli nel mondo e combatte ogni forma di violenza e di repressione, ha denunciato la triste storia che ha come vittima Salma al-Shehab, madre di due figli, dottorato  all’Università di Leeds, attivista per i diritti delle donne.

Il suo rientro in patria dall’Inghilterra le è stato fatale. “Era tornata nel suo paese d’origine per una vacanza”, raccontano i volontari di Amnesty, “ma è finita dietro le sbarre. Il 25 gennaio 2023, la Corte penale specializzata di Riad l’ha condannata Salma al-Shehab a 27 anni di carcere, seguiti da 27 anni di divieto di viaggio. Le autorità saudite l’hanno presa di mira per aver scritto dei tweet a sostegno delle attiviste per i diritti delle donne, a seguito dei quali è stata addirittura accusata di terrorismo. Prima di essere processata, è stata detenuta in isolamento per 285 giorni. Un’eternità”. E ora Amnesty ha lanciato un appello al ministro della Giustizia di Riyad affinché ordini “l’immediata e incondizionata scarcerazione di Salma al-Shehab e l’annullamento delle accusa e della condanna poiché è detenuta esclusivamente per aver esercitato pacificamente il suo diritto alla libertà di espressione”.

All’attivista è stata negata ogni forma di garanzia processuale, semplicemente perché in Arabia le garanzie processuali, specie per le donne, non esistono. “Durante la sua custodia cautelare e gli interrogatori non è stata assistita da un avvocato. Il suo processo è stato una farsa”.

Cominciato il 25 ottobre 2021, il dibattimento aveva registrato la prima sentenza a marzo dell’anno successivo quando la Corte penale specializzata (Cps) aveva condannato Salma al-Shehab a sei anni di reclusione ai sensi della legge antiterrorismo. Al processo d’appello nell’agosto 2022, l’accusa ha voluto rincarare la dose, chiedendo una punizione più severa. La Cps ha quindi aumentato la pena inflitta a Salma al-Shehab portandola a 34 anni. “Salma – questa la ricostruzione di Amnesty International - ha presentato nuovamente ricorso contro tale sentenza e, nel gennaio 2023, la Corte suprema ha rinviato il suo caso alla camera d’appello della Cps per un riesame. Il tribunale ha annullato le accuse di reati informatici, ma ha confermato le altre ai sensi della legge antiterrorismo, condannandola infine a 27 anni di reclusione.

In sostanza la critica al regime è equiparata a un’azione terroristica. E in Arabia le condanne per reati d’opinione sono una costante. Nel 2022, Amnesty International ha documentato i casi di 15 persone che sono state condannate a pene che vanno dai 10 ai 45 anni per attività pacifiche online. Quella inflitta a Salma al-Shehab è la pena più lunga emessa nei confronti di una donna saudita per essersi espressa liberamente. “Tutte le 15 persone sono state processate dalla Corte penale specializzata, originariamente istituita per giudicare i casi di terrorismo. Questa corte – ha documentato l’organizzazione non governativa - utilizza disposizioni vaghe ai sensi delle leggi contro i reati informatici e il terrorismo che equiparano l’espressione pacifica e l’attività online al “terrorismo” per perseguire coloro che Amnesty International considera prigionieri di coscienza. Queste persone sono state sottoposte a una serie di violazioni dei diritti umani durante la loro detenzione, incluso il diniego di contatti col mondo esterno, l’isolamento, anche prolungato, la negazione della rappresentanza legale per tutta la durata della custodia cautelare. Alcuni di loro sono stati anche condannati, come pena aggiuntiva, a divieti di viaggio arbitrari, in violazione del diritto internazionale sui diritti umani”.

I dossier e i rapporti stilati da Amnesty International sul fronte delle violazioni dei diritti umani grondano orrore. Nel marzo scorso sono stati certificati “i casi di 67 persone perseguite per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e riunione pacifica, tra le quali difensori dei diritti umani, attivisti politici pacifici, giornalisti, poeti ed esponenti religiosi. Di questi, 32 sono stati perseguiti per aver espresso pacificamente le proprie opinioni sui social media. Amnesty International ritiene che il numero reale di tali azioni penali è probabilmente molto più alto”.

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