Strage di Sinnai: le nuove prove e la richiesta di revisione
Quasi trent’anni dopo la condanna all’ergastolo, il pastore Beniamino Zuncheddu vede aprirsi una speranza: detenuto dal febbraio 1991, si rivolge a un giovane avvocato sulcitano che trova il modo per aprire una crepa nella sentenza definitiva pronunciata nel 1992Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Continua la ricostruzione della lunga vicenda che per oltre 30 anni ha portato in carcere un innocente.
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Dopo le tre sentenze che certificano l’ergastolo e i continui dinieghi alla richiesta di libertà condizionale pronunciati dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari (puntualmente bocciati dalla Cassazione), il destino di Beniamino Zuncheddu cambia davvero corso nel 2023, quando la Corte d’appello di Roma, dopo una lunga incertezza, dà il via al giudizio di revisione proposto dal pastore di Burcei, dal suo avvocato Mauro Trogu e da Francesca Nanni, all’epoca procuratrice generale di Cagliari. La richiesta si basa su alcuni presupposti: la condanna sarebbe arrivata sulla base di una versione falsa riguardante la strage; il movente non sarebbe da cercare nelle liti tra pastori ma in qualcosa di ben più grave, un sequestro di persona avvenuto pochi mesi prima (ottobre 1990) a pochi chilometri di distanza; il vero responsabile degli omicidi sarebbe uno di quei rapitori. Ma per capire come si sia arrivati a questo risultato è necessario fare un passo indietro. Al 2017.
Nel 2017
Nella seconda metà di quell’anno la famiglia del detenuto affida al giovane legale sulcitano Trogu il compito (improbo) di trovare la giusta strada per tirare fuori dalla cella il loro congiunto. L’estremo ed ennesimo tentativo dopo tanti altri andati a vuoto, e infatti i parenti del detenuto sono inizialmente diffidenti. Ma la scelta si rivelerà giusta.
La revisione
Intanto: cos’è la revisione? È un istituto giudiziario straordinario tramite cui è possibile riaprire un caso chiuso in via definitiva dimostrando, attraverso prove nuove (mai portate all’attenzione dei giudici nei procedimenti originari), che la sentenza iniziale è sbagliata. Per ribaltare l’esito basta insinuare anche il ragionevole dubbio che l’imputato non sia davvero colpevole. La domanda va presentata davanti alla Corte d’appello del distretto giudiziario competente per territorio (Roma, nel caso di Cagliari), la quale deve valutare ed eventualmente ammettere l’ammissibilità della richiesta. Poi, in caso di risposta positiva, inizia il vero processo, che può anche terminare con una conferma della decisione iniziale. Una strada molto stretta. Che nel caso di Zuncheddu viene intrapresa nel 2020.
Nei tre anni che separano questo momento dall’assunzione dell’incarico, l’avvocato Trogu si convince che non tutto in quella vicenda è lineare e che davvero il suo assistito nulla ha avuto a che fare con la mattanza. «Ho avuto paura che quel che è capitato a Beniamino possa capitare a chiunque», dirà in seguito. Così si mette a lavorare, chiede aiuto a un amico (Simone Montaldo, esperto di psicopatologia forense e della testimonianza), si reca all’ovile Cuile is Coccus in località Su Enazzu Mannu sulle montagne di Sinnai teatro dell’eccidio e ricostruisce l’esatta scena del crimine: si sistema nella stessa posizione in cui il superstite Luigi Pinna, genero di Gesuino Fadda (proprietario dell’ovile e vittima del killer assieme al figlio Giuseppe e al pastore Ignazio Pusceddu), aveva detto di essersi trovato quando era entrato l’omicida nella stanza e cerca di vedere con le stesse condizioni di luce i lineamenti del volto di Montaldo (che a sua volta impersona l’assassino). Risultato: Trogu non distingue alcunché.
A quel punto chiama il colonnello dei carabinieri Mario Matteucci e gli chiede una consulenza, i cui risultati sono chiari: il sopravvissuto aveva avuto pochissimo tempo per vedere il bandito (appena 0,25 secondi nella totale oscurità: la strage è stata compiuta dalle 18,30 in poi del gennaio 1991). Per Trogu, dunque, Pinna non poteva aver riconosciuto Zuncheddu, che inoltre per statura (diversa da quella indicata dal ferito), movimenti (l’ergastolano ha un deficit importante e congenito di movimento al braccio destro), spazi (troppo ridotti nella stanza della morte per ritenere veritieri quelli indicati dal superstite) non poteva essere a suo dire il reale colpevole.
La Procura generale
Ma serve qualcosa di più per fare breccia nei giudici. Allora Trogu si rivolge a Francesca Nanni, la quale approfondisce ogni aspetto della vicenda e a sua volta si convince che Zuncheddu non può aver ucciso tre persone in quel modo e in quello strettissimo lasso temporale. Eppure ancora non è sufficiente, perché per ottenere il via libera alla revisione è indispensabile portare all’attenzione dei magistrati quelle prove nuove che ancora mancano. Cosa si può fare?
La soluzione arriva poco dopo. Trogu deposita in Procura un esposto chiedendo che si verifichi la presenza di eventuali altri partecipanti alla strage: Zuncheddu è indicato come responsabile, ma nulla vieta di pensare che con lui potessero aver agito ulteriori persone. Il procuratore aggiunto Paolo de Angelis apre un fascicolo di inchiesta; poco dopo Nanni convoca al Palazzo di giustizia di Cagliari il superstite per chiedergli di ripercorrere con la memoria il giorno della strage e quelli successivi; contemporaneamente De Angelis chiede e ottiene di intercettare il sopravvissuto, nella cui auto i carabinieri del capoluogo piazzano alcune microspie. Siamo nel febbraio del 2020.
La testimonianza
La nuova testimonianza di Pinna è drammatica. Procuratrice generale e militari sono interessati alle diverse versioni da lui fornite su quei fatti: il superstite subito dopo il triplice omicidio disse agli uomini dell’Arma di non aver riconosciuto il responsabile, il cui volto era nascosto da una calza da donna; poi, dopo 40 giorni, riferì all’investigatore Mario Uda della Polizia che il killer aveva il viso scoperto e di poterlo individuare. Come in effetti fece, indicando la fotografia di Zuncheddu che gli fu mostrata dal pm nel corso dell’inchiesta. Particolare quest’ultimo sul quale si incentrano quel giorno le domande della pg e degli ufficiali dei Carabinieri.
Nanni chiede al sopravvissuto se per caso quella immagine gli fosse stata fatta vedere da Uda prima di essere convocato dal pubblico ministero che indagava (siamo nel 1991) e, dunque, prima del riconoscimento ufficiale. Il superstite nega ma tergiversa, non è convincente. Anzi, il suo comportamento secondo pg e militari conferma implicitamente la nuova tesi: Pinna accusò Zuncheddu perché convinto dall’investigatore. E che le cose stiano davvero così pare emergere poco dopo, quando il testimone esce dal Tribunale e sale sull’auto dove lo attende la moglie, con la quale parla di quanto appena accaduto. I Carabinieri ascoltano. E scoprono che è vero: Uda gli aveva mostrato l’immagine di Zuncheddu quale autore dell’eccidio prima del dovuto.
Il colloquio
Nel colloquio intercettato, Pinna spiega alla donna di aver «cercato di fare lo scemo» con la pg poco prima ma che «non fa a fare lo scemo, sono troppo intelligenti...», «mi volevano far dire che Marieddu (cioè Uda) mi ha fatto vedere la fotografia prima...loro hanno capito che è veramente così, ed è la verità...», «quello che è successo veramente già l’hanno capito...perché Marieddu mi ha fatto vedere la fotografia prima di Beniamino». Un’ammissione in piena regola.
È un passaggio fondamentale perché fa diventare dubbia l’attendibilità del suo racconto originario su cosa fosse accaduto e chi avesse sparato: il lavorio costante sul sopravvissuto dell’investigatore, magari convintosi in buona fede che Zuncheddu fosse colpevole, potrebbe aver spinto Pinna a fare altrettanto pur non avendo riconosciuto il killer. È abbastanza: lette le trascrizioni di quelle frasi la pg Nanni capisce di essere davanti alle “nuove prove” necessarie e decide di presentare la richiesta di revisione. Depositata in Corte d’appello a Roma pochi mesi dopo.
La richiesta
In 125 pagine il documento contiene una minuziosa ricostruzione degli eventi e l’elenco dettagliato di tutti i collegamenti con il fatto a suo dire ritenuto all’origine della strage: il sequestro dell’imprenditore Gianni Murgia di Dolianova. Per la pg e il legale, in sintesi, Zuncheddu, che «aveva una spalla fuori uso dalla nascita», è stato «vittima di un clamoroso errore giudiziario», mentre Pinna è autore di una «falsa testimonianza» spinto dall’ex sovrintendente di Polizia che aveva «sviato le indagini» tramite una «gravissima azione di inquinamento probatorio» consistita nel mostrare al testimone quella fotografia di Zuncheddu «in anticipo» rispetto al riconoscimento ufficiale avvenuto davanti al pubblico ministero giorni dopo, nel fargliela «memorizzare», fargliela «descrivere davanti al pm» e infine esibirgliela «quale prima foto tra le sedici usate per il riconoscimento». In sostanza il sopravvissuto, «unica fonte di prova» a carico del pastore, è «inattendibile» e «la prova regina che ha portato alla condanna di Zuncheddu è falsa, dolosamente artefatta» da «chi doveva assicurare alla giustizia i veri colpevoli». Cioè dall’ex poliziotto, vicino (si sottolinea nella richiesta di revisione, e questo passaggio ha un suo perché) all’ex giudice istruttore Luigi Lombardini, magistrato (scomparso nel 1998) che si «avvaleva di personaggi ambigui per lo svolgimento di indagini parallele» nei sequestri di persona. Tra i quali alcuni condannati proprio per il rapimento Murgia.
Episodio strettamente connesso alla strage, secondo la pg. Il vero autore dell’eccidio infatti a suo dire è un bandito morto nel 2009, Antonio Maria Corria di Orgosolo, condannato a 30 anni per aver fatto parte della banda che nell’ottobre 1990 aveva prelevato Murgia. Viceversa, Zuncheddu è innocente: l’azione non era «alla portata di tutti» ed era stata «preparata nei minimi dettagli», l’assassino (o gli assassini) sapeva quante fossero e dove si trovassero le vittime, conosceva i luoghi, aveva scelto con cura una posizione agevole e sorvegliato l’ovile; modalità «incompatibili col poco tempo che avrebbe avuto Zuncheddu», partito da Burcei verso le 17,47 e rientrato alle 19.
Dunque secondo Nanni era stato tutto orchestrato perché non si voleva far arrivare le indagini al sequestro, nel quale erano implicati (come si scoprirà solo anni dopo) alcuni confidenti di Lombardini e forse, secondo la procuratrice (ma non è mai emerso alcunché su questo fronte), gli stessi Fadda, i quali «magari» avevano chiesto «parte del riscatto». Uda «aveva come fonti» un ex servo pastore dei Fadda che col tempo aveva cambiato la sua versione sulle liti tra i Fadda e gli Zuncheddu indicando il nome di Beniamino; il patriarca Gesuino era «intimamente amico» di un uomo che poi è stato condannato per il sequestro Murgia e che aveva preso possesso dell’ovile Cuile is Coccus subito dopo la strage; quest’ultimo «aveva interesse che l’omicidio non fosse collegato al sequestro»; Uda «forse si era convinto che Zuncheddu fosse colpevole» e le indagini erano state «inquinate».
Tanti legami
Diversi i collegamenti tra i due episodi elencati nella richiesta di revisione. Silvio Piras di Terralba, uno dei carcerieri, aveva trascorso la latitanza in quella zona aiutato da persone di Busachi, paese di origine di Gesuino Fadda, e Fadda «non poteva non saperlo»; nel luglio 1992 i carabinieri di Dolianova dimostrarono la buona possibilità che il commando di sequestratori fosse passato a ridosso dell’ovile dei Fadda, distante 10 chilometri dal luogo del prelievo, e indicarono il movente nell’eliminazione di testimoni pericolosi o di complici in disaccordo; in quella zona gravitava una persona condannata per aver favorito la latitanza di Silvio Piras e che aveva parlato a un conoscente del sequestro Murgia prima che il blitz dei banditi fosse reso pubblico dicendogli che quella volta avrebbero «diviso la cifra»; uno dei sequestratori, «confidente di Luigi Lombardini con ottime protezioni tra certe forze dell’ordine», prese possesso dell’ovile subito dopo gli omicidi.
Ancora: Murgia doveva essere rilasciato tre giorni prima del suo ritrovamento (l’11 gennaio) e il ritardo secondo la pg era legato a qualcosa accaduto il 9. L’uomo che più spesso parlava con Murgia durante la permanenza nel covo di Austis (chiamato “custode 1” dal rapito) aveva detto che la banda non voleva dividere il riscatto «con altri» (600 milioni rispetto all’iniziale richiesta di 2 miliardi: qualcuno aveva fatto credere ai rapitori, sbagliando, che le possibilità economiche di Murgia fossero ben più alte e tra banditi e basisti ci furono screzi) ed era stato definito da Murgia «agitatissimo e preoccupato» proprio il giorno dopo la strage: lo era perché, è scritto nella richiesta di revisione, «sapeva del sopravvissuto», cioè di Pinna, «e temeva conseguenze».
La sua descrizione tra l’altro (corpulento ma agile, molto atletico, con un giubbotto da motociclista color sabbia, usava spesso un collant da donna per nascondere il volto, parlava sempre in italiano), secondo la Procura generale corrisponde a quella dell’omicida fatta inizialmente dal sopravvissuto (giubbotto chiaro, colletto alla coreana, corpulento ma agile). Infine: nei giorni precedenti all’assalto, Gesuino Fadda era molto preoccupato e qualcuno avvicinò lui e il figlio per dir loro di andare via «o sarebbero stati uccisi».
Nel 1991
Un primo collegamento tra i due episodi viene fatto a fine gennaio 1991. Quasi nelle stesse ore Uda comincia a parlare di Zuncheddu, ma la procuratrice Nanni sottolinea come il nome del pastore emerga unicamente quando è il poliziotto a procedere con interrogatori (alcuni anche nel Municipio di Sinnai, dove l’investigatore aveva l’ufficio di assessore), mentre mai accade durante le indagini portate avanti assieme ai carabinieri. Dunque, il parere della pg è che la Polizia imprima una svolta nell’inchiesta esercitando «pressioni su Pinna» tramite «numerosissimi colloqui investigativi mai verbalizzati». Una confidenza indirizzò Uda verso Zuncheddu, Uda spinse Pinna a «dire la verità» e Pinna indicò Zuncheddu. Esito di «una gravissima azione di inquinamento probatorio».
La nuova tesi
In realtà il vero assassino «era più basso»; durante la strage era già buio e il sopravvissuto non poteva vedere in volto l’assassino, e invece la Corte d’assise fece sopralluoghi in quell’ovile di giorno («un grave errore»). Zuncheddu all’inizio non era stato neanche «preso in considerazione», aveva un «profilo troppo basso», eppure secondo la sentenza definitiva aveva «perpetrato i tremendi delitti per mantenere fede a una minaccia» rivolta a Giuseppe Fadda, la famigerata frase «quello che stai facendo alle mie vacche un giorno sarà fatto a te» rivelata da Paolo Melis, ex servo pastore dei Fadda. Tesi in base alla quale, sottolinea la pg Nanni, in pratica «tra tutti coloro che avevano ragione di lamentarsi coi Fadda», ossia i proprietari del bestiame ucciso», proprio Zuncheddu, «che povero com’era di vacche non ne aveva mai posseduto, avrebbe avuto un interesse superiore a quello di tutti gli altri pastori legati all’ovile collettivo Masone Scusa».
Ipotesi che la procuratrice boccia, perché l’ergastolano «a differenza degli altri pastori non aveva appezzamenti di terra di sua proprietà» né bestiame. Possibile che, «una volta ammesso nell’ovile di Masone Scusa dagli altri pastori di Burcei», potesse iniziare «a comportarsi da padrone e da difensore degli interessi dei suoi soci?» La risposta del magistrato è no: sono «illazioni totalmente slegate dal materiale probatorio raccolto e assolutamente lontane dalla cultura agropastorale sarda, nella quale chi è servo pastore tale resta».
La realtà a suo dire è che Beniamino Zuncheddu «non era proprietario di bestiame, ma aveva sempre lavorato come servo pastore badando al bestiame altrui. Conseguentemente, non aveva la necessità di avere propri appezzamenti di terra, problema di cui dovevano occuparsi i proprietari del bestiame da condurre»; lavorando come pastore per vari allevatori «non aveva bisogno di stanziare a Masone Scusa e nei dodici mesi prima degli omicidi è provato che lavorò per almeno tre pastori diversi in zone sempre diverse»; la famiglia Fadda «non uccise mai una sola vacca di Zuncheddu, per il semplice fatto che Zuncheddu non possedeva vacche», quindi l’ergastolano «non aveva ragione di doversi vendicare»; gli omicidi «non possono essere collegati a una vendetta agro-pastorale»; il vero assassino era «in forma fisica», capace di muoversi «in un ambiente montano ostile»; era un «professionista, come i custodi di Giovanni Murgia»; aveva una «perfetta capacità di gestione dello stress e un’assenza totale di paura e remore nell’uccidere, probabilmente consolidate da precedenti esperienze»; aveva «un addestramento tecnico tattico e una pratica nell’uso delle armi di eccellente livello» e «nessuna remora o esitazione nell’uccidere freddamente».
Viceversa, «la malformazione congenita di cui soffriva Beniamino Zuncheddu», pur «non causando una inconciliabilità assoluta» con «la possibilità di sparare col fucile», rende improponibile «il compimento di una lunga e frenetica serie di atti e gesti fisici notevoli». In definitiva, «i nuovi elementi escludono che la persona che abbia sparato potesse essere Beniamino Zuncheddu».
La richiesta arriva a Roma. Ma serviranno ancora tre anni prima di avviare davvero il processo.
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