In questi giorni, leggendo del rapporto dell'intelligence Usa che accusa il principe saudita bin Salman dell'uccisione di Jamal Khashoggi, più d'uno cade in equivoco. L'errore è pensare che agli analisti americani siano serviti oltre due anni per collegare l'erede al trono di Riad al delitto di Istanbul. Non è così: così come alle Nazioni Unite, anche alla Cia è bastata un'inchiesta rapida per individuare responsabili ed esecutori materiali e per puntare il dito sul principe come mente dell'omicidio, o quantomeno come beneficiario della scomparsa di Khashoggi e unica autorità che poteva disporla.

Se ne parliamo oggi, a quasi due anni e mezzo dalla mattina d'autunno che vide Khashoggi entrare al consolato saudita di Istanbul e non uscirne più, è perché gli Usa hanno pubblicato quel rapporto di intelligence. Finora l'amministrazione Trump lo aveva tenuto in un cassetto per non irritare il principe, uomo forte della nuova Arabia Saudita e alleato chiave dell'Occidente nel braccio di ferro con l'Iran sciita per il controllo del Medio Oriente. Perciò Biden non ha messo gli occhi su informazioni che il suo predecessore alla Casa Bianca non avesse. Ma in campagna elettorale si era impegnato alla trasparenza su questa vicenda e ha pubblicato il report, dopo giusto una telefonata di cortesia al re saudita Salman, che da tempo ha delegato molto del proprio ruolo all'arrembante erede, orgoglioso estensore del piano di riforme Vision 2030.

Per scorgere l'ombra del "principe riformatore" dietro il delitto Khashoggi in realtà non è indispensabile vivere alla Casa Bianca e avere l'intelligence americana al proprio servizio, e neppure aver visto i fotogrammi dei video di sicurezza che inquadrano Khashoggi per l'ultima volta integro mentre entra - per poi non uscirne più da vivo - nel consolato saudita di Istanbul dove, secondo una ricostruzione ormai condivisa, verrà assaltato e ucciso da un commando arrivato dall'Arabia su un volo privato, poi smembrato da un chirurgo che ha viaggiato con i killer e infine fatto sparire. Per avere un forte sospetto in questo senso, o meglio per arrivare a un pasoliniano "io so", basta leggere gli articoli che Khashoggi firmava come opinionista sul Washington Post dal suo autoesilio americano, scattato insieme alla consapevolezza di essere diventato sgradito in patria. Per leggere quei pezzi limpidi e intransigenti, scritti in un inglese piano eppure mai piatto, non è neppure necessario l'abbonamento: il Washington Post li tiene disponibili a chiunque sul proprio sito, forse in omaggio al motto che da qualche tempo campeggia sotto la testata, tanto su carta quanto online: "Democracy Dies in the Darkness".

Basta una carrellata di temi, titoli e passaggi per capire quanto quella "column" potesse irritare un potere sbrigativo e intollerante come quello saudita. Ad esempio il 18 settembre del 2017, sotto il titolo "L'Arabia Saudita non è mai stata così repressiva. Ora è insopportabile", in un fondo che a tratti sembra una confessione Khashoggi scrive "I miei amici che vivono all'estero e io ci sentiamo impotenti. Vogliamo vedere il nostro Paese prosperare e la Vision 2030 realizzarsi. Non siamo oppositori del governo e abbiamo profondamente a cuore l'Arabia Saudita. È la sola casa che conosciamo o vogliamo. Eppure siamo il nemico. Sotto la pressione del mio governo, l'editore di Al-Hayat, uno dei più diffusi quotidiani arabi, ha cancellato la mia rubrica. Il governo mi ha bandito da Twitter quando ho prudentemente messo in guardia da un abbraccio troppo entusiasta con il presidente eletto Donald Trump. Così ho trascorso sei mesi in silenzio, riflettendo sullo stato del mio Paese e sulle scelte nette che avevo davanti. Era stato così doloroso per me tanti anni prima quando molti miei amici furono arrestati. Non volevo perdere il lavoro o la mia libertà. Ero preoccupato per la mia famiglia. Ora ho fatto una scelta diversa. Ho lasciato la mia casa, la mia famiglia e il mio lavoro, e sto levando la mia voce. Fare diversamente sarebbe un tradimento di coloro che languiscono in prigione. Io posso parlare mentre molti non possono. Voglio che sappiate che l'Arabia Saudita non è sempre stata come è adesso. Noi Sauditi meritiamo di meglio".

Ma accanto alla riflessione personale e politica sulla scelta di opporsi, e sui suoi costi umani, nella rubrica appare spesso la denuncia da polemista di razza.

Mohammed bin Salman (foto archivio L'Unione Sarda)
Mohammed bin Salman (foto archivio L'Unione Sarda)
Mohammed bin Salman (foto archivio L'Unione Sarda)

La denuncia delle contraddizioni saudite, innanzitutto. Sotto il titolo "Il principe ereditario dell'Arabia Saudita vuole 'schiacciare gli estremisti'. Ma sta punendo le persone sbagliate", il 31 ottobre del 2017 Khashoggi scrive: "Il principe Mohammed fa bene a perseguire gli estremisti. Ma sta perseguendo le persone sbagliate. Dozzine di intellettuali sauditi, religiosi, giornalisti e star dei social sono stati arrestati negli ultimi due mesi - la maggior parte di loro sono, nel peggiore dei casi, lievemente critici verso il governo. Nello stesso tempo molti membri del Consiglio degli Ulema hanno idee estremiste. Lo sceicco Saleh Al-Fawzan, che è trattato con grande considerazione dal principe Mohamed, ha detto alla tv saudita che gli sciiti non sono musulmani. Lo sceicco Saleh Al-Lohaidan, anche lui altamente rispettato, ha fornito un parere legale secondo il quale un governante islamico non è tenuto a consultare nessuno. Queste opinioni reazionarie su democrazia, pluralismo o addirittura le donne alla guida sono protette da decreti reali contro critiche o controdeduzioni. Come possiamo diventare più moderati quando visioni così estremiste sono tollerate?".

Ma forse la denuncia più intollerabile è quella della corruzione. Non solo perché mortifica l'immagine della classe dirigente saudita, ma perché rivela come manovre di palazzo gli arresti di alti dirigenti e altri membri della famiglia reale "per corruzione", ovvero per un reato in genere largamente tollerato salvo riscoprirlo di volta in volta per alimentare processi politici. Il 5 novembre dello stesso anno, sotto il titolo "Il principe ereditario dell'Arabia Saudita sta agendo come Putin", Khashoggi puntualizza: "La corruzione in Arabia Saudita è piuttosto differente dalla corruzione nella maggior parte degli altri Paesi, perché non si limita a una mazzetta in cambio di un contratto, o a regali costosi per i familiari di un dirigente pubblico o di un principe, o a disporre di un aereo di Stato perché una famiglia vada in vacanza. In Arabia Saudita gli alti dirigenti e i principi diventano miliardari dal momento che gli appalti sono enormemente gonfiati o, nel peggiore dei casi, un miraggio totale. Nel 2004 Lawrence Wright scrisse per il New Yorker sull'Impero del Silenzio dove un ampio progetto per le fognature a Jeddah si era ridotto a una serie di tombini sparsi lungo la città senza che sotto ci fossero condotte. All'epoca ero il direttore del quotidiano principale, posso dire che tutti lo sapevamo bene, e non lo abbiamo mai scritto".

Il tono autocritico per le passate timidezze non attenua l'impatto delle sue denunce. Anzi, le rafforza con un tono di angosciata onestà intellettuale. Ma quanto ad angoscia, nulla può eguagliare l'ultima rubrica pubblicata sotto la firma di Jamal Khashoggi. È il 4 ottobre 2018 e il Washington Post propone ai lettori un lungo spazio bianco.

In fondo, una nota del direttore: "Jamal Khashoggi è un autore e giornalista saudita, e una firma delle "Global Opinions" del Whashigton Post. Le parole di Khashoggi dovevano apparire nello spazio in alto, ma non si è più sentito da quando è entrato nel consolato saudita di Istanbul martedì pomeriggio per una questione consolare di routine".

Già da allora era facile immaginare che cosa fosse accaduto. Dopo la pubblicazione del rapporto della Cia, è impossibile fingere di non saperlo.
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