Se l’obiettivo è ritrovare le parole del vino, serve un minimo di impegno. Un grande scienziato e matematico vissuto tra i secoli  XVI e XVII, a Padova, è stato immortalato nel racconto di queste frasi: «Papa, cardinali, principi, scienziati, condottieri, mercanti, pescivendoli e scolaretti: tutti erano convinti di starsene immobili dentro questa calotta di cristallo. Ma ora stiamo uscendo fuori e ci attende un grande viaggio». Aggiungeva: «Le città sono piccole e le teste altrettanto: piene di superstizioni e di pestilenze. Ma noi ora diciamo: visto che così è, così non deve rimanere. Perché ogni cosa si muove, amico mio». Il movimento, già. Quello stesso che fa incontrare Nicola Perullo, livornese, ordinario di Estetica all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, col Galileo di Bertolt Brecht (contraddittorio ma non nella sua avversione a ogni oggettività precostituita), con Hieronymus Bosch vicino alla poesia metasemantica di Fosco Maraini, con Mario Soldati, Carmelo Bene, e il Calvino delle Lezioni Americane (sintesi imposta che non rende giustizia a quel groviglio di rimandi e relazioni catalizzato da Perullo con il suo vino). Si può azzardare che la vera rivoluzione copernicana enologica, o meglio Epistenologica, innescata dal filosofo toscano, attraversa quel ciclo di conferenza che Calvino avrebbe dovuto tenere ad Harvard nell’anno accademico 1985-1986. Morì prima e quelle mai-lezioni diventarono nel 1988 un prezioso libro pubblicato da Garzanti: “Italo Calvino, Lezioni Americane sei proposte per il prossimo millennio”. Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistency (quest’ultima mai definita ma solo abbozzata): sei valori/qualità che, sostiene Calvino, rappresentano un bagaglio di sopravvivenza in un mondo sempre più difficile da decifrare. Una bussola creativa che riassume anche una visione estetica col vino nelle cosiddette connessioni invisibili. «Calvino ci propone un’idea di fluidità continua, di aperture delle esistenze», commenta Nicola Perullo che si dice in ottima sintonia con l’autore di “Le città invisibili”, gomitolo fantastico di connessioni e relazioni. «Epistenologia non è tanto interessata al sapere sul vino», dice Perullo, «ma al sapere col vino, cioè a quello che facciamo col vino quando lo incontriamo: immagini, traiettorie, possibilità, creazioni».

EPISTENOLOGIA IN 3 MOVIMENTI Sostiene Perullo, dunque, nel suo ultimo libro “Epistemologia, il vino come filosofia” (Mimesis, 2021), di avere fatto tre viaggi nella scrittura con il vino. «Ognuno a distanza di circa tre anni dall’altro, raccontano un percorso unitario ma differenziato». Il primo “Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto” «è un sorso ruvido, duro e salato, selvatico. Un bere rosso e violento, sdegnoso di ogni accorgimento con un mosto che è stato lasciato a se stesso, sia nella fermentazione che nell’affinamento». Il secondo, “Epistenologia. Il gusto non è un senso ma un compito”, «è un sorso bianco di argilla e di sottosuolo, tutto fatto nell’anfora, come una materia estrattiva, potente ma ben levigata, ampio e progressivamente più calmo e avvolgente». Infine “Epistenologia. Il vino come filosofia”, un viaggio «appena iniziato», per cui è difficile darne un’immagine. Ma azzarda: «È il sorso più scuro e profondo di tutti, maturo, vino da vendemmia quasi tardiva, che ricorda la purezza dell’acqua».

Italo Calvino, Lezioni Americane, Garzanti; Vita di Galileo, Bertolt Brecht, Einaudi
Italo Calvino, Lezioni Americane, Garzanti; Vita di Galileo, Bertolt Brecht, Einaudi
Italo Calvino, Lezioni Americane, Garzanti; Vita di Galileo, Bertolt Brecht, Einaudi

PERULLO E LA LEGGEREZZA Calvino inizia le sue lectures con il valore della Leggerezza. Non superficialità, ma essenzialità. «Il mio lavoro - scrive - è stato il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio». Leggerezza come rinuncia al superfluo e al vacuo, agli orpelli che appesantiscono. Così Perullo sostiene la necessità «di spostarsi dalla tradizionale critica del vino, per certi versi inadeguata, per liberarsi e alleggerirsi dai rigidi standard qualitativi che, si dimentica spesso, sono convenzionali e legati a fattori storici». Sarebbe meglio parlare di stile. «Il vino è molto più simile a un’opera d’arte che a un motore, a una macchina perfetta perché sempre uguale a se stessa». L’arte non è qualcosa di stabile, fissata o codificata, per esempio, nell’armonia. «Nel flusso del tempo e dello spazio, si scopre arte anche la disarmonia». E, sostiene Perullo, «siamo noi che spostiamo i paletti di ciò che è buono e ben fatto. Resta però sempre la consapevolezza che il gusto è qualcosa che evolve, cambia come cambiamo noi».

Epistenologia, il vino come filosofia, Nicola Perullo, ed Mimesis 2021
Epistenologia, il vino come filosofia, Nicola Perullo, ed Mimesis 2021
Epistenologia, il vino come filosofia, Nicola Perullo, ed Mimesis 2021

RAPIDITÀ Il concetto di gusto dunque è legato al movimento, allo spazio e al tempo. La rapidità è il secondo valore prospettato da Calvino. Non si tratta di mera velocità, troppo facile. La rapidità, per Calvino, è la capacità di gestire il tempo. Il tempo del racconto, vero. Ma anche il tempo della propria esistenza fatta di relazioni, cambi, intrecci, tagli e divagazioni. Dice Perullo che percepire il vino «in “modalità ottica” significa restare psichicamente immobili, solidificare i processi, annullare ogni passione immaginativa e dunque ogni stupore davanti all’accadere». La modalità ottica (che in qualche modo si contrappone alla “modalità aptica”) non è altro che la visione del degustatore imbevuto di grammatiche da sommellerie quando «ci dice che questo vino “sa” di ribes, di mandorla o fichi secchi, spacciando il suo detto per un asserto referenziale». Ma non può essere l’ortofrutta il racconto del vino. Il degustatore di scuola «riproduce in modo passivo il già percepito dai libri che insegnano quella correttezza sintattica». In pratica, gioca sul riconoscimento come fonte di oggettività e verità. «La percezione dei ribes, delle mandorle o dei fichi secchi sarebbe dovuta all’effettiva presenza, verificabile, dagli strumenti analitici di cui l’apparato umano boccale sarebbe il modello o lo stampo, di composti chimici misurabili». Ma poi il ribes effettivamente c’è? Domanda inutile, ontologica, e perciò inadeguata all’Epistenologia che guarda il flusso dell’esistere, la texture di relazioni, per un Perullo che cita Bene. «Direi che ne ho abbastanza dell’essere. Diamoci alternative e liberiamoci dalle rigide maglie dell’ontologia necessaria». Un approccio, quello del degustatore ottico, che «mira a ridurre il corpo a una macchina».

ESATTEZZA E VISIBILITÀ APTICA Non si tratta, va da sé, di esattezza analitica/referenziale che potremmo ritrovare nel degustatore. «Il vino non è una conoscenza da oggettivare, ma un incontro da realizzare. Non si tratta di acquisire dati secondo una grammatica e una sintassi prestabilite, ma di creare immagini e traiettorie. Amo il vino perché mi regala il continuo stupore dell’innesco di relazioni possibili, una vastità di immagini, che dispiego e nelle quali trovo e produco continue corrispondenze. BIl libroevo per ricostruire». Così sostiene. Non dunque il giudizio di una conoscenza senza il bisogno di bere, ma la necessità di far arrivare il vino nel corpo. Ritenere il vino un semplice oggetto significa invece puntare tutto su «ciò che succede tra la bocca e la testa». Ovvero «naso e palato diventano macchine, isolate dal resto del corpo completo, sensi addestrati a rispondere secondo un programma installato, misuratori universali». Insomma, un’occhiata indifferenziata e neutrale. Dunque non esatta. «Occhio della mente come occhio del gusto». L’Esattezza del contatto è sempre Visibilità. Due valori questi che per Calvino segnano la strada verso un rifugio-ristoro. La precisione delle immagini (che non può essere indifferenziata o neutrale) e la creatività, la fantasia feconda. Non a caso Perullo cita Mario Soldati: «Il vino è la poesia della terra, ha scritto Mario Soldati. Poesia come poiesis, dal graco poiein, che indica l’azione del fare, del produrre qualcosa come valore».

MOLTEPLICITÀ DEL LONFO Senza scomodare Gadda, volendo cominciare con una citazione come fa Calvino nella sua quinta lezione, quella sulla Molteplicità, Il Lonfo di Fosco Maraini può essere d’aiuto: «Il lonfo non vaterca né gluisce. E molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta». Incontrare il vino con gli strumenti analitico/referenziali del «collezionista di oggetti, del catalogatore programmato» equivale a farsi trovare fuori posto. E pretendere di assaggiare questi versi di Fosco Maraini con le posate della grammatica e della sintassi. Comico. «Nella poesia metasemantica - dice Maraini - il lettore deve contribuire con un massiccio intervento personale. La crasi non è data dall’incontro con un oggetto, bensì, piuttosto, dal tuffo in un evento. L’autore più che scrivere propone». Ovvero come sostiene ancora Perullo, non degustazione ma assaggio, nel senso di saggiare, esplorare. L’Epistenologia è un campo di possibilità e di creazioni. Apre su vaste praterie di nuova comunicazione. Lo svelamento con, attraverso, il vino di quel pulviscolo di relazioni, tessuto di molteplici esistenze, che si innescano dal contatto. Si può anche essere in disaccordo con tutto questo percorso epistenologico, ma di certo, è il suggerimento, meglio non ignorare. Perché è, chi il vino fa.

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