“Vladimir Putin, ovvero l’uomo che non sorride mai. E che difetta di comunicativa. Con l’auricolare del traduttore simultaneo infilato nell’orecchio destro, quella camicia bianca a mezza manica, la pelle chiarissima e gli occhi che non riescono a fissare niente per più di un millesimo di secondo, il presidente russo ha l’aria dello scolaretto timido e diligente. Ascolta con attenzione il suo amico Silvio, annuisce quando lo sente parlare di futura integrazione del suo popolo in Europa. E continua a far roteare le pupille azzurre tra il pavimento e il soffitto. Nella sala conferenze dell’hotel Abi d’Oru, dove gli argomenti principali sono i rapporti culturali italo-russi – quasi che la questione irachena, il terrorismo internazionale e l’Unione europea fossero cose di secondo piano - a Putin va bene così. Al punto di farsi rubare la scena dal Cavaliere al momento di rispondere alla domanda di una giornalista russa sul peggioramento della situazione in Iraq e sulla eventualità di un maggiore peso dell’Onu nella ricostruzione. Berlusconi non gli dà nemmeno il tempo di pensare a una risposta, e parla a lungo dei concetti di libertà e democrazia sconosciuti agli stati del Medio Oriente”.

Così L’Unione Sarda descriveva il leader russo alla sua prima uscita pubblica in terra di Sardegna. Correva l’anno 2003 e nessuno, almeno allora, poteva solo immaginare la trasformazione di quell’uomo apparentemente timido, circospetto, comunque schivo e di poche parole.

Invece, Vladimir Vladimirovic Putin, classe 1952, nel giro di qualche lustro è diventato il nuovo “zar” della Russia. Certo, non nel senso inteso dai Romanov, perché lui non aveva ascendenze nobili. Anzi, proveniva da una modesta famiglia di Leningrado (dal 1991, tornata a chiamarsi San Pietroburgo come ai tempi degli zar). Il padre, che si chiamava anche lui Vladimir, soldato dell’Armata Rossa, era rimasto ferito durante la lunga battaglia di Leningrado, assediata dai tedeschi del Terzo Reich dal settembre del 1941 al gennaio del 1944. Aveva subito l’amputazione di una gamba e alla fine della guerra era stato congedato dall’esercito perché non in grado di svolgere il suo compito. Era uno delle decine di migliaia di invalidi che la società sovietica aveva di fatto messo da parte. La retorica e la propaganda di Stalin, condite dalle parate militari con soldati in divisa – tutti alti, belli e sani -, non prevedeva zoppi e storpi, anche se quei difetti fisici erano stati causati dalla strenua difesa della patria. All’epoca, però, mentre la gran parte di questi reietti trascorreva la sua mesta esistenza nelle sale d’attesa delle stazioni di Leningrado chiedendo l’elemosina e bevendo pessimi distillati per scaldarsi, Vladimir padre trova lavoro in una fabbrica e una stanza, al quinto piano di un palazzo senza ascensore, dove dormire con la moglie Maria. Pazienza se il bagno lo si condivideva con altre venti famiglie, un tetto era più che sufficiente.

Vladimir figlio la sua infanzia e la prima giovinezza l’ha trascorsa in questo buco con una sola finestra che dava su un minuscolo cortile, una sorta di pozzo luce sempre grigio. Come lui tanti altri coetanei coi quali giocava per le strade tracciate in mezzo a palazzoni enormi e tutti uguali, una delle numerose banlieu di questa enorme città portuale sul Baltico, capitale della cultura russa ma piena di contraddizioni. A raccontare il lato nascosto del presidente russo è Nicolai Lilin, scrittore (“Educazione siberiana”, da cui è stato tratto un film), ma prima ancora tatuatore, attività che lo ha portato in Italia dove ormai vive da quasi 20 anni. Il suo libro “Putin, l’ultimo zar: da San Pietroburgo all’Ucraina” è la sintesi di un’indagine approfondita, con documenti e testimonianze, sulla vita dell’ex capo del Kgb (ora Fsb), dall’infanzia ai giorni attuali. Nello scorrere delle pagine, Lilin sottolinea la determinazione, la volontà ferrea, l’ambizione, la scaltrezza e l’intelligenza di un uomo che sta mettendo in ginocchio l’intero Occidente con la sua decisione di invadere l’Ucraina.

Per lo scrittore quanto avvenuto nei mesi scorsi era ampiamente prevedibile: "Nessun dubbio che l’Ucraina sia un Paese sovrano che avrebbe diritto di scegliere il futuro che vuole. Quello, però, che sta succedendo, in una forma finale di abbrutimento, non è colpa soltanto di Putin o della Russia. La colpa è di tutti. Non ci sono innocenti in questa storia, se non i civili”. Per Lilin la grave responsabilità occidentale è non aver capito e interpretato gli analisti del mondo orientale. La fine della Guerra Fredda ha cambiato gli scenari e Putin aveva ben chiare le sue intenzioni sin da primo giorno in cui è diventato il leader del Cremlino: “L’attacco all’Ucraina era progettato da tempo e poteva essere evitato se l’Occidente se ne fosse accorto”.

A prescindere dalle questioni meramente politiche, in ogni caso inevitabili considerato il momento, l’importanza del lavoro di Lilin è facilmente intuibile nella lettura del volume, peraltro piacevolissima. Narra del Vladimir adolescente che aveva la fissazione, quasi un’ossessione, di diventare agente dei servizi e che entra in un ufficio del Kgb dove, anche ingenuamente, chiede a un signore di mezza età come poter essere uno di loro. Quell’altro, di rimando, gli risponde che loro no, non accettavano domande di iscrizione: “Scegliamo noi”. Aggiungendo prima di congedarlo: “E poi bisogna studiare molto”. “Che cosa?”, domanda il ragazzo. “Giurisprudenza”. Detto fatto, il giovane Putin, portati a termine gli studi di perito chimico, decide di presentarsi al concorso per accedere all’università di Leningrado, dipartimento di Giurisprudenza. C’erano migliaia di pretendenti per una ventina di posti disponibili. Studiando giorno e notte, Vladimir superò brillantemente le prove e, dopo la laurea, ottenne una borsa di ricercatore. Senza naturalmente smettere di praticare lo Judo e il Sambo, disciplina tipica russa praticata soprattutto dagli agenti dei servizi. Ed è qui, che Putin si mise in mostra venendo “avvicinato” da un dirigente del Kgb. Quindi, lo studio del tedesco e l’incarico di capo dell’ufficio di Berlino est nel periodo più caldo della sua storia che culminò con la caduta del Muro e le sue conseguenze per l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Quindi, il ritorno in patria, ad assistere al crollo dell’Urss e a riciclarsi in politica come vice sindaco di San Pietroburgo. I rapporti con gli amici d’infanzia, trasformati in oligarchi grazie alla benevola cessione pressoché gratuita di enti e aziende pubbliche, la scalata ai piani sempre più alti di una società in disfacimento dove lui attingeva nuova linfa, e denaro, per salire ancora sino al “trono” di zar. Un racconto avvincente e zeppo di aneddoti che spiegano il Putin di oggi, ricco e potente, che non sarebbe esistito senza quello di ieri, povero e ambizioso. Un contributo, quello di Lilin, più che prezioso per comprendere le origini dell’ultimo capitolo della storia contemporanea (ancora aperto e che non si sa quando si chiuderà): una guerra che a parole nessuno voleva ma che di fatto sta consentendo a tutti di sguazzarci. Senza notare sforzi decisi verso una soluzione pacifica del conflitto, in particolare dai leader dei Paesi più evoluti.  

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