Qui non c’è il brado. E neppure il mare, come cantavano gli Statuto, ma è una magra consolazione. La peste suina africana è sbarcata in Piemonte. Una gran brutta notizia. Quella un po’ meno antipatica per la Sardegna è che si tratta del genotipo 2, gemello terribile del genotipo 1 che da trent’anni ha tolto il sonno e soprattutto l’export agli allevatori sardi.

Il primo virus è stato trovato a Ovada, provincia di Alessandria, nella carcassa di un cinghiale morto. Altre due carcasse di cinghiale sono state trovate a distanza poche ore dopo a Franconalto, sempre nell’alessandrino, e a Isola del Cantone in provincia di Genova. Il sospetto è che si tratti della stessa malattia. Le analisi sono affidate ai  tecnici dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.

In pochi giorni, il virus ha dilagato. Sono 114 il numero dei comuni, 78 in Piemonte e 36 in Liguria, compresi dal Ministero della Salute nella zona infetta.

A piedi delle Alpi hanno preso la faccenda abbastanza seriamente e i sardi capiscono bene il perché.

La peste in Piemonte è una novità quasi assoluta. In realtà nel 1983 ci fu un focolaio in un’azienda domestica e venne acclarata l’origine sarda. È stato l’unico caso in cui la peste è uscita fuori dall’Isola poiché come ha certificato Coldiretti l’Isola si è sempre tenuta stretta la sua Psa.

Alberto Laddomada è l’ex responsabile dell’Unita di progetto. Il deus ex machina dell’eradicazione della malattia, un super esperto di levatura e formazione europea.

“Non sarà affatto facile venire a capo del virus – spiega - perché questo genotipo 2 è quello che circola nell’Europa dell’Est e in Germania e ovunque si è endemizzato. Ovvero è presente allo stato endemico dei cinghiali, in tutta l’Europa  orientale”.

Il problema esiste ed enorme. Uno dei pochi vantaggi è rappresentato dal fatto che in questo momento il focolaio è circoscritto a una zona in cui non ci sono suini domestici.

Laddomada guarda oltre. “Nel contempo bisogna dire che la situazione è a rischio. Ci sono tantissimi cinghiali, la possibilità che la malattia si possa diffondere lungo la catena degli appennini è reale”. Seguendo un immaginario percorso tra le montagne il pericolo per gli allevamenti più importanti d’Italia è concreto.

Non siamo lontani da Piacenza e Pavia.Il cuore produttivo del sistema Maiale Italia potrebbe doversi presto confrontare con un problema che ha discriminato per anni i prodotti sardi. 

Sono tutti molto preoccupati, perché fermare la malattia con il genotipo 2 è un problema. Noi abbiamo il genotipo 1, adattato al brado. Con il crollo del pascolo tradizionale all’aperto l’abbiamo debellato. Non è stato più trovato un cinghiale positivo. Questo vuol dire che si è lavorato molto bene”.

Abbattuto il brado, in sintesi, nell’Isola è venuto a mancare il serbatoio della malattia.

Ora è l’Isola a doversi guardare le spalle.

“Nell’immediato non ci saranno conseguenze per la Sardegna, ma c’è il rischio che entri in Sardegna o come potrebbe arrivare nelle Marche o in altre Regioni”.

Cosa bisognerebbe fare? Per Laddomada una sola cosa. “Massima allerta, sensibilizzare le autorità europee e italiane. Si sta lavorano ad un vaccino ma ci vorrà tempo”.

Intanto in Sardegna la situazione è in evoluzione. In attesa dell’atteso verdetto da parte degli esperti di Bruxelles sono ricomparse le zone rosse. La dichiarazione dei focolai trova gli esperti in netto disaccordo. “Sono contrario per due motivi. – spiega Laddomada -  Il primo scientifico. Stiamo dando maggiore importanza ai positivi di quella che è nella pratica. Quelli rinvenuti oggi sono solo un residuo di quanto accaduto in passato. E poi c’è un problema politico. Le misure adottate gravano sui suini legali. Abbiamo dato atto che questa giunta sta continuando la lotta ma questa non deve pregiudicare il buon rapporto con gli allevatori legali. Se pagano loro viene a mancare un incentivo alla legalità”

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