È uno straordinario viaggio nell’arte del Novecento, al cospetto delle pietre miliari del cubismo, del dadaismo, dell’astrattismo e di tutti i maggiori movimenti d’avanguardia fioriti tra Europa e Nuovo Mondo. Fino al 18 marzo il Museo Guggenheim di Venezia presenta la mostra “Marcel Duchamp e la seduzione della copia”, un percorso dentro la storia del padre dell’arte concettuale.

È la prima volta che la Collezione di Palazzo Venier dedica una mostra a Duchamp, un tributo per l’artista che è stato paziente amico e maestro di Peggy Guggenheim. Quando lei, ventenne, aveva appena lasciato New York per stabilirsi a Parigi, fu lui a introdurla nel cuore della vita bohémienne, aiutandola a diventare la mecenate d’arte moderna più grande e generosa, quella con il fiuto più audace nella scoperta dei nuovi talenti (primo su tutti l’indiscusso genio americano Jackson Pollock); la signora che riusciva a spostare, anche se solo per una stagione, il cuore delle avanguardie da New York (dov’era il Guggenheim Museum, fondato dallo zio Solomon) a Venezia, città che lei adorò tanto da comprarvi (nel 1948) un palazzo sul Canal Grande, Palazzo Venier, allora un edificio incompiuto, per dare una casa alle centinaia di opere della sua prestigiosissima collezione.

Classe 1898, morta a 81 anni nel dicembre 1979, è stata una delle icone del Novecento. Molte foto che restano di lei la ritraggono vestita con eccentrici abiti di Fortuny e Poiret, splendide collane tribali, enormi occhiali a farfalla di Jean Arp per niente utili a nascondere un’immensa solitudine mai colmata da una sfilza di mariti e amanti. E un grande dolore mai consolato per la morte del padre, della sorella Benita e, più tardi, nel ‘67, di Pegeen, la figlia che era anche «madre, amica, sorella». Peggy stravedeva per il padre Benjamin, e quando questi nel 1912 morì nel naufragio del Titanic, lei appena quattordicenne, tra le figlie fu quella che ne soffrì più di tutte, e continuò a «cercarlo per sempre». Appena maggiorenne entrò in possesso del patrimonio ereditato e a ventitré anni scelse e sposò il ragazzo più bello e anticonformista dei paraggi, quel Laurence Vail - scrittore e pittore dadaista, soprannominato il “re dei bohémien” - col quale si trasferirà nella dorata Parigi.

È qui che Peggy conosce Marcel Duchamp e Jean Cocteau, e poi Stravinskij, Man Ray, Picasso, Mirò, De Chirico. Qualche anno più tardi la coppia si trasferisce nel sud della Francia con i due figli Sindbad e Pegeen. Laurence beve, Peggy comincia ad aiutare gli artisti suoi amici. Sono liti continue e, dopo la morte della sorella Benita, «il grande amore della mia infanzia», i due divorziano. Peggy si consola con John Holms, uno scrittore frustrato, poi, dopo la morte di questi, con Douglas Garman, intellettuale di sinistra e, dopo ancora con Humphrey Jennings, un pittore surrealista che le dà una mano ad aprire la sua prima galleria, a Londra, la Guggenheim Jeune, spiritoso riferimento al prestigioso museo newyorkese dello zio Solomon Senior. Sono gli anni in cui Peggy, guidata da Marcel Duchamp, visita mille mostre, conosce nuovi talenti e vecchi maestri, organizza vernissage nella sua galleria, e aggiunge alla lista altri amori. Anche quello durato soltanto dodici giorni con Samuel Beckett, «un irlandese alto e ossuto con due grandi occhi verdi che non ti guardavano mai in faccia».

«Quando, dove e perché la rivedrò?» le chiese, dopo una serata in casa Joyce, Max Ernst, affascinante pittore surrealista tedesco. Lei rispose con una delle sue fulminanti battute - «Domani, alle quattro, al Café de la Paix, il perché lo sa». È il grande amore per Peggy che, con lo scoppio della seconda guerra mondiale aiuta Ernst e altri artisti europei a rifugiarsi oltreoceano. A New York i due si sposano e per Peggy comincia una vita di umiliazioni e botte, di dolore e sopportazione delle continue scappatelle di lui. Peggy chiede il divorzio quando Ernst, nominato da lei stessa talent scout di giovani artiste, prende alla lettera l’incarico e si incapriccia di Dorothea Tanning, presentandosi con lei ai vernissage. È un grande dolore per Peggy che comunque si dedica totalmente al lavoro curando la sua nuova galleria newyorkese e organizzando mostre e personali di giovani artisti e sconosciuti talenti. Nel 1946 pubblica la sua autobiografia: una storia scritta senza peli sulla lingua che fa infuriare gli zii, soprattutto Solomon. E convince Max Ernst a lasciare il Paese. Qualche mese più tardi Peggy Guggenheim è a Venezia dove decide di esporre le opere della sua collezione alla Biennale dell’Arte contemporanea.

Fu un trionfo. Come se soltanto in quel momento il mondo intero si fosse accorto della grandezza e della lungimiranza di questa «eroina transatlantica uscita da un romanzo di Henry James» scrisse Gore Vidal. I musei di tutto il mondo facevano la fila per esporre le sue opere, in testa il Guggenheim Museum dello zio Solomon che, per tutta la vita l’aveva a dir poco disprezzata. Peggy intanto acquistò Palazzo Venier, punto d’incontro degli artisti di tutto il mondo. Alla fine acconsentì a lasciare l’amministrazione della sua collezione al museo newyorkese, ma soltanto a una condizione: che le opere restassero per sempre a Palazzo Venier, nella sua amatissima Venezia. La città che l’ha acclamata come l’ultima dogaressa.

© Riproduzione riservata