Niente più sfilate in costume da bagno. Le aspiranti Miss Italia dovranno fare da sé e vestirsi come meglio credono. Una svolta, per lo storico concorso di bellezza che tra l’altro anche quest’anno (appuntamento a settembre) non andrà in diretta tv, e tuttavia nelle selezioni in giro per l’Italia raccoglie ancora migliaia di iscrizioni da parte delle ragazze. Con quali aspirazioni è facile comprendere, perché da sempre la coroncina della più bella ha aperto alla reginetta di turno le porte del cinema e della moda.

Così fin dai tempi di Barbara Nardi, e stiamo parlando di novant’anni fa. Era lei la ragazza che piaceva a Gino Boccasile. L’illustratore di “Le Grandi Firme” la vedeva moderna, assertiva, seducente, e la disegnava sulle copertine del giornale di Pitigrilli. «Guardo le ragazze per strada», rispondeva a chi gli chiedeva chi fosse la signorina, e non era una bugia visto che la vedeva tutti i giorni in redazione - una collaboratrice, si chiamava Barbara Nardi - la sigaretta fra le labbra, i morbidi vestiti di seta, le labbra colorate di rosso. Una modernissima ragazza del 1938, milanese, diciassette anni.

Fu lei la vincitrice del primo concorso di bellezza in Italia, “La Signorina Grandi Firme”, che fu inventato da Pitigrilli e lanciato dal suo giornale. Arrivarono dopo “Cinquemila lire per un sorriso”, “Miss Italia”, e tante altre passerelle di bellezza - ma l’idea fu appunto di Pitigrilli, brillantissimo quanto moralmente opaco scrittore all’epoca molto fascista che fu l’amante di Amalia Guglielminetti e poi sposò Lina Furlan, prima donna avvocato in Italia.
Neanche per il concorso dei dadi Star le italiane scrissero tante cartoline. Nella redazione milanese del giornale arrivarono migliaia di fotografie, e i lettori erano invitati a dare un voto. Il fatto è che rischiava di rimanere fuori proprio Barbara Nardi: la sua famiglia le vietò di partecipare - troppo disdicevole, spiegò la madre - ma la ragazza si ribellò e si iscrisse di nascosto. Fu un trionfo per la signorina dai vestitini di seta che piaceva tanto a Boccasile. Vinse lei, e come premio ebbe un contratto cinematografico e duemila lire al mese per il periodo di registrazione del film “Troppo tardi t’ho conosciuta” di Emanuele Caracciolo.

Fu l’inizio di un’epoca, quella delle signorine novanta-sessanta-novanta, leggerezza deflagrante in un’Italia che rotolava dentro la guerra, quando pure le riviste femminili predicavano rigore e severità, e Maria Pezzi - grandissima giornalista di moda - disegnava per le lettrici modelli sobri, autarchici, rigorosi.

Fu una provocazione quella di “Le Grandi Firme”. Sicché l’anno successivo, nel ’39, il concorso non venne bandito ma già ci pensava la Giviemme, il ramo cosmetico della farmaceutica Carlo Erba, che finanziò “Cinquemila lire per un sorriso”, selezione fotografica inventata da Dino Villani, chiamato a lanciare la campagna pubblicitaria di un dentifricio. Il pittore, autore di tante reclame (è quello che ha inventato la festa della mamma e quella degli innamorati, nonché la colomba pasquale e la prima pubblicità del panettone), pensò di invitare le ragazze a mandare le loro foto al settimanale “Il Milione”. Ne arrivarono tremila solo la prima settimana: la giuria scelse una quattordicenne, Isabella Verney, mentre Barbara Nardi arrivò seconda (ma in compenso aveva appena guadagnato il titolo di “Le più belle gambe degli Anni Trenta”).
Fu la guerra a cancellare anche le più innocenti vanità, e basti dire che le signore italiane venivano invitate a cucire da sé gli abiti, «con stoffe e modelli nazionali», esortavano i giornali femminili, mentre ben presto fu la fame il problema vero, concreto.

Solo nel ’46 le signorine italiane tornarono in passerella. E fu sempre Dino Villani a riportarcele. «Scegliete come miss la ragazza che dareste come fidanzata a vostro figlio», disse alla giuria. Il vecchio “Cinquemila lire per un sorriso” venne chiamato “Miss Italia”, e fu un evento nazionale visto che il meccanismo della selezione delle fotografie inviate andò praticamente in tilt: erano migliaia e migliaia. Si decise di far sfilare le ragazze, a Stresa, davanti ai giurati che nel corso degli anni furono Orio Vergani, Cesare Zavattini, Luchino Visconti, Carlo Carrà, Totò, Isa Miranda e Vittorio De Sica.
Un fenomeno di costume, Miss Italia. E già dalla prima edizione - vinta da Rossana Martini - i grandi inviati dei settimanali cominciarono a raccontare i sogni delle ragazze che volevano fare il cinema.

Nel ’47 vinse Lucia Bosè, e con lei quell’anno c’erano Silvana Mangano, Gianna Maria Canale, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago.
Tre anni dopo, i giurati bocciarono Sofia Scicolone, che si faceva chiamare Lazzaro: troppo formosa, dissero, epperò per la Loren inventarono il titolo di Miss Eleganza.
Tutte le vincitrici del titolo, ma anche delle altre fasce, sono sempre finite direttamente sul set cinematografico o delle fiction: da Stefania Sandrelli, ad Anna Kanakis, a Maria Grazia Cucinotta, a Milly D’Abbraccio, a Claudia Pandolfi e Anna Valle. Modelli femminili, a dire il vero via via sempre meno rappresentativi se non di sè stesse, tanto che nell’88 si rende necessario agganciare la manifestazione a uno show televisivo.

È del ’90 l’idea del presidente di giuria Maurizio Costanzo, che propose l’abolizione delle misure, il classico 90-60-90 di seno vita fianchi: la prima vera svolta storica del concorso. Dopo cinquantadue anni cambiavano ufficialmente i canoni della bellezza, non più solo quella della signorina di taglia 42 con vita stretta, e infatti vinse Rosangela Bessi, bruna e piena, di tranquillizzante normalità.
Cinque anni dopo altra rivoluzione. A Salsomaggiore Terme il patron Enzo Mirigliani abolì la classica passerella e le ragazze non facevano più la prova costume, abito da sera, abito da giorno, andando e tornando davanti ai giurati. Presero a ballare, a dichiarare cosa volevano fare da grandi, a parlare insomma. Ma se il format televisivo non funziona più, Miss Italia continua incredibilmente a essere pane di dibattito per sociologi, politici, ecclesiastici e tuttologi vari. E dire che in fondo non è altro che spettacolo. 

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