«Tutto è distrutto. Sopra le macerie non vi è altra cosa che militari che stanno scavando, altri carichi con barelle trasportano feriti e cadaveri. Tutti camminano con disinfettanti per la puzza che dalle macerie esce per i cadaveri che lì vi sono. Li vedemmo scavare in tanti pezzi. Tutti i giorni se ne trovano dei vivi, però sembrano scheletri. Uno visse quattordici giorni mangiando sapone. Un altro, padre di famiglia, sedici giorni cibandosi d’alcuni fichi, lui e una bambina. Altri tre vissero con alcune cipolle. Una famiglia salvata per un cane, il quale uscì di sotto le macerie da un buco; i suoi padroni, dopo tante fatiche, svestiti, gli andarono appresso e si salvarono».

La devastazione

Il disastro, la disperazione, il miracolo della vita. Sembrano descrivere esattamente ciò che è accaduto dopo il terremoto del 6 febbraio scorso al confine tra Turchia e Siria, il sisma di magnitudo 7.7 che ha provocato la morte di oltre 50mila persone. Sono invece parole risalenti a oltre un secolo fa. Si tratta di un passaggio della relazione scritta dalle suore cappuccine di Loano che nel gennaio 1908 partirono volontarie dal porto di Genova per portare soccorso alla gente di Messina, città che - assieme a Reggio Calabria - all’alba del 28 dicembre 1908 fu rasa al suolo da un terremoto di magnitudo 7.2, seguito da un maremoto con onde alte fino a tredici metri. Furono 80mila, metà della popolazione di Messina e un terzo di quella di Reggio Calabria, le vittime di quella che è considerata la più grave catastrofe naturale in Europa per numero di morti e il più devastante disastro ad aver colpito l’Italia nel Novecento.

Gli edifici crollati

Fu, quello di Messina, il terremoto che animò lo studio della sismologia: dalle modalità di propagazione delle onde telluriche all’analisi degli aspetti geologici, fino alle ricadute in campo ingegneristico. Le indagini più importanti furono condotte dall’abate Giuseppe Mercalli (padre della nota scala d’intensità per classificare gli effetti dei terremoti); da Mario Baratta, fondatore della sismologia storica italiana; e da Giovanni Platania, docente di Fisica terrestre dell’Università di Catania, che studiò gli effetti dello tsunami. Quell’evento così disastroso - che rase al suolo Messina e Reggio Calabria - determinò una svolta epocale anche nelle norme tecniche per le costruzioni. Nelle due città capoluogo, e nelle decine di paesi delle rispettive province colpiti dal sisma, crollarono tra il 70 e il 100 per cento degli edifici: palazzi troppo alti, dalle fondamenta fragili e coi tetti pesanti. Solo quattro mesi più tardi, nell’aprile 1909, un regio decreto stabilì fondamentali regole di costruzione e impose la classificazione sismica dei territori. 

La strage all’alba

Quel 28 dicembre 1908, alle 5,20 di domenica, un boato fece tremare Messina. Nello stesso momento, dall’altra parte dello Stretto, la terra tremava anche a Reggio Calabria. Interi palazzi e povere abitazioni vennero giù imprigionando migliaia di famiglie colte nel sonno. Sotto le macerie morirono decine di migliaia di persone, e tanti dei sopravvissuti - riparati nelle spiagge dove pensavano di trovare un rifugio sicuro - vennero trascinati via dalle gigantesche onde del maremoto scatenatosi pochi minuti dopo le scosse. Una catastrofe. Le due città distrutte e migliaia di feriti da curare, morti da seppellire, famiglie da assistere, sfollati a cui trovare riparo. «Chi può decifrare la sventura di questi poveri disgraziati?», annotarono le suore cappuccine nella loro relazione. «Chi perdette tutta la famiglia e chi di loro fu salvo per miracolo. Tutti unanimemente chiedono roba per vestirsi e pane per non morire dalla fame. Chi era tre giorni che non mangiava, chi quattro: pare cosa impossibile, eppure è».

I soccorritori

I primi a prestare soccorso a Messina sono gli equipaggi delle navi militari italiane e inglesi attraccate al porto, raggiunti ore dopo dai marinai russi e francesi. Nel giro di pochi giorni la mobilitazione fu generale: nei due versanti dello Stretto cominciarono ad arrivare aiuti da tutta Italia e da tutta Europa, mentre infuriava la polemica per i ritardi e la disorganizzazione del governo. Il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena partirono per Messina il giorno dopo il sisma e vi arrivarono il 30. Subito la sovrana organizzò un ospedale per curare i superstiti a bordo della nave corazzata Regina Elena, della Regia Marina, occupandosi personalmente di tanti feriti. Il Corriere della Sera intervistava i soccorritori che raccontavano della regina d’Italia impegnata nelle ricerche dei sopravvissuti, «in mezzo alle macerie, senza curarsi dei crolli». Nelle settimane successive arrivarono decine di navi dagli Stati Uniti e dalla Germania cariche di viveri, coperte, e legname per la costruzione delle baracche per gli sfollati.

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