La prima parola d’ordine è confusione. Chiunque si può accodare a una processione grottesca. Perdersi e ritrovarsi vagando tra le vie del centro. Esistono solo le eccezioni, non ci sono spettatori ma solo protagonisti. Inutile cercare una transenna da cui assistere alla festa. Le imposizioni fanno parte della famiglia delle regole, confinata oltre i confini della libera e anarchica repubblica di Ovodda.

Mehuris de Lessìa (mercoledì delle Ceneri) ai piedi dell'Orohòle è la normale follia di un giorno incredibile, è il mondo alla rovescia, di maschere recuperate, pellicce, parrucche e nerofumo. Di rottami, asini e campanacci. Una festa che accoglie ma non vende l'anima. Anzi non vende proprio nulla.

La seconda parola chiave è improvvisazione. Gli strumenti ad esempio, percussioni con qualsiasi cosa che si possa percuotere, dalle pelli alle teste ai campanacci, il tradizionale organetto, il modulare stridio di un elettrodomestico trascinato per strada. Il diavolo ha fatto le pentole e anche i coperchi, per meglio farli suonare. Il corteo umano è composto da uomini intintos di fuliggine, vestiti di stracci, abiti vecchi, lenzuola o coperte. Non passa mai di moda il pastrano di orbace nero abbinato a gambali di cuoio. Vestirsi in velluto e bonette è abbastanza usuale anche a carnevale. Non ci sono maschere vere e proprie, ma tutto è molto teatrale, surreale dal principio, che consiste nel tingersi il volto per entrare alla festa come in un mondo parallelo. Tuttavia bisogna considerare la terza regola, che su tutto prevale. Ossia il fatto che non ci sono postulati che tengano e se per puro caso a qualcuno frullasse in testa di abbigliarsi da gomma da masticare o busta di plastica nessuno avrebbe nulla da dire. E poi i mezzi di locomozione. Gli asini hanno un ruolo chiave, i cavalli no, in quanto il profondo amore e rispetto degli ovoddesi per i cavalli impedisce qualsiasi contaminazione tra il divino e gli inferi. 

Ma quali sono le origini del Carnevale di Ovodda? Le informazioni sono molto scarse. Don Conte potrebbe essere un uomo potente e temuto che molti anni fa governò il paese. Un classico tiranno giustiziato dopo la rivolta del villaggio. Gli abitanti e i loro discendenti da quel giorno rievocherebbero ogni anno l'episodio.

Non c’è nessun Dio che muore per poi rinascere ciclicamente, ma viene raffigurato come un fatto storicamente accaduto. Il protagonista nasce e muore il primo giorno di Quaresima, momento dedicato dalla Chiesa cattolica alla preghiera a al pentimento.
Un tempo il Don Conte era rappresentato dallo "scemo del villaggio", oggi si utilizza un grosso fantoccio che viene condotto in giro per il paese a chiedere l'elemosina.

L’uso di annerirsi è comune a tantissime località del’Isola, risale probabilmente alla dominazione spagnola. Per praticità era meglio confondersi nell’oscurità. Storicamente il colore di questa manifestazione era il nero. Questa ricorrenza era riservata solo agli uomini che vestivano abiti vedovili e ne combinavano di ogni colore. Nel corso degli anni la festa ha subito varie trasformazioni, sia nel modo di mascherarsi sia nel modo di dipingersi il volto, ma il cambiamento più importante riguarda la partecipazione delle donne al corteo.

Tra le certezze. In piazza (ma non immaginatevi la classica piazza, a Ovodda non c’è), si suona e si balla: organetto e ballu tundu. E poi non c’è tensione in un posto dove tutto è accordato in una sana follia. Perfino uno scafato come Vinicio Capossela ebbe a trarre ispirazione da una visione di Mehuris de lessìa: quindici uomini e quaranta teste di porco. Probabilmente bollite con cavolo verza. Prima o poi anche a Ovodda arriva il tramonto e il momento in cui Don Conte deve transitare oltre un dirupo, nelle nere praterie. Sarà processato, dato alle fiamme e gettato dal ponte. Il vino bagna i germi della ribellione al potere. Solo quando il carro in fiamme vola verso l'abisso carrasecare è davvero finito e la Quaresima può cominciare.

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