«L’omicida è Zuncheddu: ergastolo»
In primo grado i giudici della Corte d’assise di Cagliari danno credito ai testimoni (nonostante le diverse versioni su episodi determinanti) e condannano il pastore di Burcei quale responsabile della strage di Sinnai commessa nel gennaio del 1991 a Cuile is CoccusPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Il processo sulla strage di Sinnai è rapidissimo. Il rinvio a giudizio è del 9 luglio 1991, la prima udienza davanti alla Corte d’assise a Cagliari si celebra il 16 ottobre, la sentenza arriva l’8 novembre. Esattamente nove mesi dopo gli omicidi.
Beniamino Zuncheddu, in carcere dal 28 febbraio quale indiziato del triplice delitto, assiste alla sfilata dei testimoni - parenti delle vittime, pastori dell’ovile Masone Scusa, cittadini di Burcei, consulenti, periti, investigatori e così via - e in un’occasione rilascia dichiarazioni spontanee. Continua a negare: non è stato lui, dice, a uccidere Gesuino Fadda, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu la sera dell’8 gennaio 1991 sulle montagne di Sinnai a Cuile is Coccus, dove le vittime tenevano 1.110 tra capre, pecore e altro bestiame. Non ha imbracciato il fucile e sparato prima al capo famiglia, quindi al ragazzo e infine al loro dipendente e a Luigi Pinna, genero di Fadda, che assieme a Pusceddu si era nascosto nel casolare avvolto dal buio nella speranza di scampare alla morte. In effetti era sopravvissuto; ma a quale prezzo. La gamba maciullata, la spalla perforata. La notte trascorsa col terrore che il killer tornasse a finire il lavoro. Solo alle 7,30 del mattino seguente erano arrivati i soccorsi. Quindi la corsa in ospedale, le cure, gli interrogatori. E, dopo un lungo «travaglio interiore» durato circa 40 giorni, come lo avevano definito i giudici, l’indicazione del responsabile: Zuncheddu. Ora il momento della verità.
Cosa è accaduto?
Compito della Corte è accertare cosa sia davvero accaduto quella sera a 700 metri di altitudine sotto le antenne di punta Serpeddì. Chi ha sparato? Quanti erano? Perché? C’è il racconto di Luigi Pinna, ritenuto «attendibile e preciso». Questa la sua versione.
Il buio è calato da oltre mezz’ora, lui sta costruendo un muretto per il recinto delle caprette ma deve andare in palestra a Maracalagonis alle 19 e guarda continuamente l’orologio. Per arrivarci servono circa tre quarti d’ora di viaggio. Si dirige verso l’auto e si ferma a parlare con Giuseppe Fadda, che sta mungendo e gli chiede un aiuto. In quel momento si sente uno sparo. Sono le 18,30. Qualcuno ha ucciso Gesuino Fadda mentre questi risaliva la strada diretto alla sua macchina. Ignazio Pusceddu lancia l’allarme e dice a Giuseppe di correre «a prendere il fucile che stanno sparando a tuo padre». Il ragazzo si sposta mentre Pinna e il pastore entrano nel casolare dove c’è la stanza che funge da dormitorio. Chiudono l’ingresso e aspettano, in silenzio. Sentono un’altra esplosione, forse due. Poi il rumore di qualcuno che entra nel casolare, urla in italiano «fuori di qui, fuori di qui» e apre con un calcio la porta della camera. Pusceddu con un coltello in mano implora il killer di risparmiarli («siamo sono pastori, non c’entriamo»), ma una sola fucilata lo uccide all’istante. Poi l’arma viene puntata contro Pinna, rannicchiato in parte sotto la branda e centrato da due colpi alla spalla e alla gamba. Dopo di che l’omicida esce, spegne il generatore e si dilegua.
Un resoconto ritenuto attendibile dai giudici sulla base dei riscontri investigativi. Emerge che l’assassino abbia colto di sorpresa Gesuino Fadda e l’abbia ucciso sparandogli da circa due metri di distanza senza dargli il tempo di reagire, forse la vittima neanche si è resa conto di quanto stava per accadere. Poi il bandito ha percorso in tutta fretta i 180 metri che separano il cadavere dall’ovile, ha incrociato Giuseppe (nel frattempo andato, forse, a cercare una delle armi custodite nello stazzo) e lo ha fulminato con un colpo al petto da circa 10 metri di distanza. Infine l’ingresso nella camera dormitorio e poi la fuga.
L’inchiesta
Indagini e testimonianza del sopravvissuto spingono i giudici a ritenere che abbia agito una sola persona e che questa persona sia Beniamino Zuncheddu: le differenti versioni del superstite sull’identità dell’omicida e di un altro testimone su un episodio che si rivelerà determinante (le minacce rivolte a Giuseppe Fadda da un giovane poi identificato nello stesso Zuncheddu) sono ritenute giustificabili. Vediamo i due punti controversi.
Calza sì, calza no
Il primo: Pinna il 9 gennaio al carabiniere salito sull’ambulanza per interrogarlo dice che il killer era alto circa 180, robusto, con un giubbotto alla coreana color bianco, gli scarponi col riporto e una calza da donna sul capo a nasconderne il viso, quindi non ha potuto riconoscerlo. Una versione ripetuta in seguito alla polizia giudiziaria e al magistrato. Poi dopo circa 40 giorni, quando nelle indagini si è già inserita la Criminalpol della Polizia, il superstite fa retromarcia. Sentito più volte dall’ispettore Mario Uda, anche negli uffici comunali di Sinnai (l’investigatore è assessore), alla fine rivela che l’assassino ha agito a volto scoperto e dunque può individuarlo. In precedenza ha mentito per paura, si giustifica. Così il pm gli mostra 16 fotografie e tra tutte indica quella che ritrae Zuncheddu. I giudici danno credito a questa seconda versione, ritenuta «intrinsecamente e soggettivamente attendibile», e giudicano Pinna uomo dalla personalità «non controversa». A loro parere davanti al maresciallo dell’Arma, sull’ambulanza, il sopravvissuto era ancora terrorizzato e «combattuto tra il desiderio di aiutare gli inquirenti e il timore di spingere l’assassino a ucciderlo», così aveva fornito tanti dettagli ma non quello decisivo a identificarlo per evitare di essere fatto fuori. Poi dopo «ripensamenti sofferti e forti depressioni» ecco il dietro front per «l’esigenza morale di contribuire alla ricerca della verità». In fin dei conti l’assassino «sapendo di essere stato riconosciuto avrebbe potuto comunque eliminarlo».
Il pastore ondivago
Il secondo. Paolo Melis, che lavorò per i Fadda a Cuile is Coccus dal settembre 1989 e poi da marzo a settembre 1990, conferma i contrasti tra Fadda e gli allevatori di Masone Scusa (sconfinamenti, l’uso dei cani per porvi fine, la loro uccisione, le fucilate contro i bovini, gli scontri fisici tra contendenti) e aggiunge che nell’autunno del 1990, mentre era in campagna con Giuseppe Fadda e questi sparava alle vacche, comparve a circa 50 o 100 metri un giovane «alto 170, robusto ma non grasso, capelli lunghi e scuri» che rimproverò il ragazzo: «Quello che stai facendo alle vacche un giorno succederà a te». Un giovane mai conosciuto prima, che rivide in seguito su un vespino intorno all’ovile di Masone Scusa. E che poi riconobbe in Zuncheddu. Per i giudici è ininfluente che il testimone su quella frase abbia dato nel tempo tre ricostruzioni differenti: nella prima disse ai carabinieri di non aver visto l’episodio e di averlo saputo durante una festa di paese a Sinnai da Giuseppe Fadda, che non fece il nome di chi l’aveva pronunciata; nella seconda, resa dopo 15 giorni e al poliziotto Uda, sostenne di essere stato presente all’episodio e aver visto chi aveva parlato, una persona che però non conosceva (e il ragazzo non gli disse di chi si trattava); nella terza, infine, confermò l’ultimo racconto ma aggiunse che, così gli disse Fadda, si trattava del nipote di un allevatore che gravitava su Masone Scusa. La Corte, nonostante tutto, ritiene che le varie versioni sull’episodio della minaccia siano «identiche» e Melis, non «influenzato da elucubrazioni accusatorie», sia stato «genuino e attendibile».
Un indizio che diventa prova
La frase minacciosa rivolta a Giuseppe Fadda diventa uno dei capisaldi della condanna, perché per i giudici è una «minaccia di morte» che, messa in relazione con quanto poi accade ai Fadda «e in rapporto» a quel «contenzioso aperto sul conflitto per i pascoli», diventa «un gravissimo elemento d’accusa» che «dà ulteriore forza al riconoscimento di Pinna». In pratica, la conferma della sua colpevolezza. E l’accusa mossa durante il processo dagli avvocati difensori a Uda (a loro dire aveva condizionato il superstite ma anche il pastore Melis) è ritenuta «grave, perché ipotizza un’attività dolosamente diretta a frodare la Giustizia». Invece c’è la «sicura prova del fatto storico delle minacce a Fadda» ed è «sufficientemente attendibile la loro attribuzione a Zuncheddu».
Di più. La tesi secondo cui l’ispettore aveva fatto in modo che Pinna indicasse Zuncheddu (in quanto convinto della sua responsabilità nella strage), viene ribaltata: l’investigatore in sostanza cercava di spingere la vittima a dire la verità, «opera doverosa», e del resto si poteva anche pensare «che Pinna, sin dall’inizio a conoscenza dell’identità dell’aggressore, da lui in realtà visto in volto, avrebbe potuto dirlo in confidenza a Uda per poi convincersi in seguito di testimoniarlo» così da «punire il colpevole». In fondo per i giudici Pinna «ha una personalità ben strutturata, alla sua coscienza non sarebbe sfuggita la differenza tra un riconoscimento vero e uno falso e l’enormità della responsabilità assunta con un atto tanto immorale». Invece «mai aveva avuto rapporti con Zuncheddu, che neanche conosceva, dunque perché indicarlo?» Si tratta di un «teste di notevole attendibilità» perché ha spiegato con precisione «ora del fatto, sequenza, visibilità nei locali, posizione dell’assassino, caratteristiche del fucile, la distanza da Pusceddu, il generatore spento». Il dietro front è «ragionevole e comprensibile».
Foto e ricognizione
A questo si aggiunge che ha indicato il pastore di Burcei attraverso «una ricognizione fotografica» e un confronto con altre persone per poi ribadire le accuse in aula. Ed è «convinto» di essere nel giusto, «perché altrimenti lascerebbe il vero assassino libero di portare a termine il compito alla prima occasione». D’altro canto, indicando la persona sbagliata, «si creerebbe un nuovo nemico», cioè Zuncheddu, «con tutti i suoi amici e parenti». Una «ipotesi irrealistica».
Volto scoperto
Infine, per la Corte è sicuro che il killer fosse a volto scoperto. Ci sono «riscontri logici». L’azione è stata programmata; in Sardegna «si usa di norma un cappuccio, non una calza»; poi «di notte e in campagna diminuisce la visibilità, la percezione auditiva e la sensibilità di chi agisce» e ci si nasconde «per proteggere la propria identità da eventuali testimoni, quindi è incongruo che un individuo mascherato elimini tutti i testimoni». Lo fa per timore di rappresaglie, come ipotizzato dalla difesa? No: «Dopo il primo colpo poteva allontanarsi nel buio per far perdere le tracce; invece è sceso verso l’ovile senza paura uccidendo Giuseppe Fadda e gli altri due», quindi «non poteva che essere a viso scoperto». C’era «l’urgenza di eliminare testimoni capaci di identificare l’autore», il quale temeva di essere stato riconosciuto da Pusceddu. Così «cambia il piano e con un’improvvisa e straordinaria determinazione decide di eliminare tutti». Si tratta insomma di «un’unica persona che», impugnando un fucile automatico calibro 12, «con rapidità straordinaria fulmina prima i due Fadda, poi uccide a bruciapelo l’incolpevole e innocuo Pusceddu e spara due colpi contro Pinna, che lascia immobile e coperto di sangue, come morto. Quindi, freddamente, chiude l’alimentazione del generatore, tutte le lampadine si spengono e l’ovile cade nel buio».
«Lo ha visto»
Ma il superstite ha potuto vederlo, perché la lampadina nel locale adiacente al dormitorio, «come da ispezione dei luoghi» (che però la Corte ha svolto in pieno giorno, non la sera e in inverno), «illumina quasi l’intera metà della stanza» così da «consentire la percezione di ogni dettaglio: lineamenti del volto dell’assassino e abbigliamento». E ha «potuto interiorizzare tutti i numerosi dettagli» perché in quei momenti «le risorse dei sensi e dello spirito subiscono una istantanea stimolazione e potenziamento consentendo di memorizzare dettagli e sequenze vissute anche per centesimi di secondo».
Incongruenze
Secondario che Pinna abbia inizialmente indicato in 180 l’altezza dell’omicida, mentre Zuncheddu raggiunge i 170: «Ha osservato l’assassino dal basso verso l’alto, una imprecisione accettabile». Gli altri elementi «sono usciti indenni alle verifiche». E la malformazione all’arto destro che renderebbe l’imputato inabile a imbracciare l’arma, per i periti è una «difficoltà modesta» che «non esclude l’uso del fucile». La Corte esclude anche la pista alternativa ipotizzata dalla difesa, un legame tra l’eccidio e il sequestro dell’imprenditore Gianni Murgia avvenuto a Dolianova nell’ottobre 1990. Secondo gli avvocati una «banda spietata» di rapitori poteva aver «sterminato» chi sapeva della loro «frequentazione dell’ovile», cioè i Fadda, ed ecco perché il killer aveva colto alla sprovvista Gesuino Fadda: lo conosceva e lo ha fatto avvicinare senza timore.
Un solo colpevole
Tesi però ritenuta dai giudici «del tutto sfornita del ben più piccolo riscontro». Quindi, il colpevole è Zuncheddu. Perché? Per la Corte si tratta di una «vendetta e rappresaglia» dovuta a «un contrasto in interessi pastorali» col vicino ovile collettivo di Masone Scusa. Gesuino Fadda nel dicembre 1988 viene autorizzato dal Commissario regionale degli usi civici a far pascolare il suo bestiame nella cussorgia di Cuile is Coccus. Nel luglio 1989 lo stesso allevatore denuncia lo sconfinamento giornaliero sui suoi terreni di un gregge di circa mille capre, un centinaio di pecore e un vistoso branco di ovini i cui proprietari sono di Burcei. «Un carico eccessivo vista la siccità». Fadda, «preoccupato», chiede provvedimenti.
Questa invasione costante per i giudici non è «un episodio casuale», ma «una contestazione della disponibilità del territorio vantata dai Fadda e un’offesa all’identità sociale dei titolari del diritto sul territorio». La tensione dal 1988-1989 «monta progressivamente sino al punto di non ritorno». I Fadda per allontanare gli animali utilizzano cani addestrati che azzannano e feriscono i bovini, «condotte gravi e offensive» che spingono i vicini a reagire in modo uguale e «sempre più elevato». I cani vengono uccisi più volte e in una occasione impiccati a un albero: «Un avvertimento massimamente minaccioso» cui di solito «seguono vie di fatto sulle persone». I Fadda a quel punto sparano alle bestie col fucile. «Una sfida che raggiungerà un’altissima tensione quando Giuseppe Fadda, sorpreso a sparare alle vacche, sarà ammonito da Beniamino Zuncheddu».
L’imputato
Questi, 27 anni, gravita su Masone Scusa «ed è direttamente coinvolto nel gravissimo contesto. Ha posseduto o custodito bestiame, è stato visto anche in tempi recenti» rispetto ai delitti «su un vespino rosso sulla strada di montagna da cui parte quella per Cuile is Coccus». Nell’estate 1989 e 1990 è rimasto nell’ovile di Masone Scusa assieme a un presunto zio che ha pessimi rapporti con Fadda, «col quale si è picchiato», ed è con lui anche l’8 gennaio 1991 sino alle 17,45; inoltre è cugino di altri proprietari di bovini che sconfinano nei terreni dei Fadda. Insomma, «sente una forte solidarietà» tanto da «intervenire in loro sostegno in occasione di un confronto minaccioso» tra due di loro «e i Fadda padre e figlio»; ha suo bestiame a Masone Scusa; è «parente, amico e solidale» coi proprietari dei bovini nonché «protagonista degli sconfinamenti»; frequenta costantemente quell’ovile estivo e ha «personali ragioni di avversione coi Fadda».
In definitiva, il pastore sotto accusa «non si limita a schierarsi al fianco degli altri ma assume da solo una posizione di così aperto contrasto da spingerlo a proferire esplicite gravissime minacce verso i Fadda». Che sfociano nel delitto, portato a termine «con una rapidità straordinaria, in pochi minuti».
L’alibi
Zuncheddu nega e sostiene di aver trascorso la giornata a Perdu Noru a vigilare sulle capre, di essere rientrato in compagnia su una moto Ape e di essersi fermato su un guado a parlare con tre persone, di essere arrivato a Burcei intorno alle 17,47 e di essersi lavato e cambiato per uscire e cercare nei bar qualche amico; quindi, non trovando alcuno, di essere andato da un’amica per fare compagnia al figlio. Lì è rimasto sino a tarda sera.
Ma per i giudici è stato lui a uccidere. Da Cuile is Coccus a Burcei si arriva in circa mezz’ora, sono solo 17 chilometri «percorsi con mezzo molto agile, condotto da mano esperta e con presumibile molta fretta». Quindi non oltre 40 minuti prima delle 18,30 l’imputato parte dal paese per tornarvi dopo altri 40 minuti, tempo da aggiungere a quello, «non più di dieci minuti», impiegato negli omicidi. «Un’azione premeditata». Zuncheddu cerca di «diminuire il tempo per ostentare la propria presenza in pubblico e dimostrare di essere stato altrove», ma quando va dall’amica lei sta pulendo i piatti, «attività che faceva dopo i pasti», ed è da «escludere che alle 18,30 la cena fosse già finita». Per la Corte «non c’è prova che Zuncheddu sia rimasto a Burcei tra le 17,45 e le 19,15-19,20». Manca l’alibi sui tempi, una «straordinaria valenza accusatoria».
Testimoni
Più tardi due testimoni dicono di averlo visto transitare sul vespino in paese alle 18,30 ma quelle testimonianze, arrivate nell’agosto 1991, quando Zuncheddu è in carcere da sei mesi, «sono ingiustificatamente tardive» e «inaffidabili». L’alibi dunque «è falso».
Insomma: ci sono il riconoscimento, «fonte diretta di prova»; una «forte causale» dimostrata dalle testimonianze; l’assenza di un alibi «nelle ore del delitto». Il «complesso probatorio» è «talmente solido» da spingere la Corte a convincersi «della responsabilità dell’imputato». E arriva la condanna: ergastolo. Solo il primo passo, perché la difesa fa subito ricorso.
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