Cinque anni sono pochi. Pochissimi, aggiungerebbe il presidente della Regione uscente Christian Solinas, visto che per quasi la metà del tempo la sua amministrazione ha avuto a che fare con la gestione della pandemia. Al di là dell’esperienza di ciascuno, il tema è molto sentito in questa fase di pre campagna elettorale: un mandato non è sufficiente per venire a capo di problemi storici come la mobilità interna ed esterna o lo spopolamento. E ormai non si usa più fare annunci validi solo per i prossimi cinque anni.

Quando è diventato segretario del Pd, Piero Comandini ha detto che «la Sardegna ha bisogno di un governo stabile per almeno dieci anni, che possa fare riforme strutturali importanti, a partire da quella della burocrazia della macchina regionale. Penso poi al problema dello spopolamento che non possiamo pensare di risolvere con una manovra di bilancio». Sempre per il Dem - l’ha sottolineato dopo uno dei tavoli del campo largo che ha indicato Alessandra Todde candidata presidente - «l’obiettivo è che questa grande coalizione che stiamo costruendo possa governare la Sardegna per i prossimi dieci anni».

Lo stesso Solinas vorrebbe cinque anni in più a disposizione. Al raduno leghista di Pontida aveva spiegato che «abbiamo bisogno di continuità, è necessario completare almeno un ciclo di dieci anni per invertire la rotta in settori strategici come i trasporti e la sanità». E Paolo Truzzu (FdI) - anche lui in pista per diventare il prossimo candidato del centrodestra alla guida della Regione - parla sempre della necessità di trasmettere ai cittadini un’idea di Sardegna per i prossimi dieci anni.
Ora, da quando esiste l’elezione diretta del presidente della Regione, nessuno schieramento vincente è mai riuscito a farsi confermare per una seconda legislatura. Non andò bene al centrosinistra di Renato Soru che, dopo aver sconfitto nel 2004 Mauro Pili, fu costretto a cedere nel 2009 a Ugo Cappellacci. Stessa sorte per l’azzurro che nel 2014 venne superato da Francesco Pigliaru. Nel 2019 l’ex sindaco di Cagliari Massimo Zedda (centrosinistra) non fa eccezione, andando incontro alla sconfitta con l’attuale governatore Solinas (Psd’Az-Lega). Quindi: negli ultimi vent’anni l’alternanza è stata perfetta perché gli schieramenti non sono mai riusciti a ripetere il successo. Ciò si presta a varie interpretazioni, ma la più lampante e banale è legata all’insoddisfazione dei sardi per i governi che si sono succeduti. Spesso si imputa alle maggioranze di turno di promuovere tanto clientelismo. Le cose sono due: o non è vero e l’accusa è infondata, oppure la pratica non è stata così invasiva da garantire la fedeltà di un elettorato che per tre volte ha fatto il contrario rispetto a cinque anni prima.

C’è sempre una prima volta. Si dice che il vento meloniano di Fratelli d’Italia continuerà a soffiare fino alle elezioni europee. Il partito di Giorgia Meloni potrebbe spingere il centrodestra verso un obiettivo mai centrato da quando il presidente si elegge direttamente: la continuità. Le condizioni sembrano favorevoli. Aiuta, e molto, un centrosinistra spaccato in due, con la doppia candidatura di Alessandra Todde per la coalizione a trazione Pd-M5S (con il sostegno di dodici sigle) e di Renato Soru (Progetto Sardegna, Progressisti, LiberU, Più Europa, Upc, gli indipendentisti di Irs e Progres e forse Azione). Ma le diplomazie stanno facendo il possibile perché i due fronti si ricompattino. Non è facile: nessuno dei due candidati sembra disponibile a ritrattare, e a fare passi indietro. Ma se i pontieri avessero successo, allora la situazione si ribalterebbe a favore del centrosinistra. Perché, non si stanca di sostenere Massimo Zedda, «si vince solo se siamo uniti, andare divisi significa sconfitta sicura ed è lontanissima da noi l’idea di riconsegnare la Sardegna alle destre. Ma perché le divisioni siano superate c’è bisogno di un confronto plurale, sincero di idee e tra persone che pure hanno posizioni diverse nonostante si riconoscano in un campo comune di valori e di ideali»

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