La maggior parte dei dizionari di inglese propongono "risorsa" come prima traduzione della parola "asset". Il termine contiene una sfumatura interessante: generalmente una risorsa è preziosa ma non è necessariamente consapevole di esserlo.

Vale per le risorse aurifere, vale per quelle energetiche. E vale per Donald Trump, che secondo l'ex spia sovietica Yuri Shvets fu un asset del Kgb per quarant'anni. Shvets è la fonte principale di "American Kompromat", nuovo libro del giornalista Craig Unger - già autore di "House of Trump, House of Putin" - che sostiene una tesi al tempo stesso sconcertante e verosimile. I servizi sovietici puntarono le loro carte già negli anni Settanta su un giovane e narcisista imprenditore americano, e negli anni videro la loro fonte di informazioni e influenza diventare un personaggio televisivo e del jet set e infine presidente degli Stati Uniti. Il tutto a costo zero, visto che Trump non veniva retribuito e in realtà non sapeva neppure di essere una risorsa del Kgb: l'intelligence russa lo pagava in complimenti, nel senso che aveva capito da subito come vellicare l'ego di Trump fosse il modo migliore per ottenere da lui tutto il possibile.

In effetti immaginare che per quattro anni una "risorsa" dei servizi segreti russi abbia occupato la scrivania dello Studio Ovale fa accapponare la pelle. O fa saltare di gioia, a seconda del punto di vista: secondo quel che Shvets ha riferito al Guardian nei giorni scorsi, al Cremlino ci furono "celebrazioni" quando il profeta dell'America First vinse le presidenziali del 2016. Secondo la ricostruzione di "America Kompromat - Come il Kgb ha coltivato Donald Trump e le relative storie di sesso, avidità, potere e infedeltà", i rapporti di Trump con i russi cominciarono nel 1976, quando l'imprenditore decise di lanciare un'escalation immobiliare dal Queens a Manhattan e acquistò il suo primo albergo: era il Grand Hyatt New York hotel, nei pressi della Grand Central Station. La tv in camera era da tempo un must per un hotel, tanto più se di un certo livello, e Trump ne comprò 200 da Semyon Kislin, un immigrato russo comproprietario della Joy-Lud electronics, sulla Quinta Strada. Shvets, che sotto la copertura di corrispondente per l'agenzia di stampa Tass lavorò a Washington come maggiore dei servizi russi, dice che il negozio era controllato dal Kgb e che Kislin (che nega) era una specie di talent scout dell'intelligence di Mosca che segnalò subito ai superiori il vanesio ed estroverso imprenditore alberghiero.

Ma in quel periodo, sempre a fine degli anni Settanta, Trump fa suonare un secondo campanello nella comunità dello spionaggio d'oltrecortina: quando sposa la modella cecoslovacca Ivana Zelnickova gli agenti di Praga cominciano a interessarsi a lui in tandem con i fratelli maggiori, gli analisti del Kgb. Il nostro uomo attrae ancora una volta l'attenzione dei servizi, eternamente a caccia di "asset" in Occidente, non solo perché era «vanesio, altamente suscettibile di adulazione», ma anche perché già all'epoca parla senza colplessi delle proprie ambizioni presidenziali. Il momento chiave - ricostrusce "American Kompromat" - è il 1987, dieci anni dopo l'acquisto di televisori sulla Quinta Strada. Donald e Ivana sono invitati a San Pietroburgo da un alto dirigente del Kgb che si propone come un immobiliarista interessato a una Trump Tower moscovita. Quel sopralluogo dell'immobiliarista in terra russa è l'occasione per un "profondo sviluppo" dei rapporti del Kgb con l'imprenditore yankee, attraverso "una charm offensive: avevano raccolto molte informazioni su di lui, sapevano che era estremamente vulnerabile dal punto di vista intellettuale e psicologico, e incline all'adulazione". A quel punto gli agenti dei servizi giocano la carta più semplice ed efficace: "Hanno finto di essere incredibilmente impressionati dalla sua personalità e di credere che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti un giorno".

Un caso classico di profezia che si autoavvera, si direbbe. Ma i servizi russi non saranno costretti ad aspettare il 2016 per raccogliere i frutti del loro lavoro: passano praticamente subito all'incasso, e senza averlo programmato. Di lì a qualche tempo, ricostruisce il Guardian, Trump cominciò seriamente a esplorare la possibilità di correre per le presidenziali, e il primo settembre comprò una pagina intera su New York Times, Washington Post e Boston Globe e la titolò: "Non c'è nulla di sbagliato nella politica di difesa dell'America che un po' di spina dorsale non possa curare". Il testo era un'anticipazione dell'America First e delle polemiche con gli alleati del Patto Atlantico che abbiamo vissuto negli ultimi quattro anni, col corollario del disimpegno dai fronti caldi del pianeta e dell'isolazionismo. In sostanza Trump teorizzava l'uscita dell'America dalla Nato e spiegava perché "gli Usa dovrebbero smettere di sobbarcarsi le spese militari di Paesi che non possono permettersele".

Quelle che Shvets descrive sono "scene di incredulità e giubilo in Russia", alle quali ebbe occasione di assistere perché nel frattempo era andato a rapporto alla sede del Kgb, dove lo attendeva una menzione d'onore per la "misura attiva" messa a segno dal nuovo asset americano. In effetti aveva fatto più Trump da solo in un giorno che il Kgb in un anno per mettere in discussione l'Alleanza Atlantica. Ma era comunque meno, molto meno di quanto lo stesso Trump avrebbe avuto modo, tempo e potere di fare nei quattro anni appena conclusi.
© Riproduzione riservata