Qualcuno dice che in realtà la sua biblioteca Donald Trump non vuole nemmeno farla, se ne parla è per darsi un tono. E sarebbe un peccato. Intanto per i cultori del kitsch: quale incubo pittoresco potrebbe venire fuori dall’incrocio fra un concetto solenne e sapiente come quello di biblioteca e il glamour aureo, pacchiano e reazionario del Golden Retrivo?

Ma sarebbe un peccato soprattutto per gli storici. Formalmente i documenti relativi a una presidenza appartengono al presidente, che quando istituisce la propria biblioteca li cede all’archivio federale, la Nara, ottenendo sostegno economico per la realizzazione dell’opera e sostegno professionale per la sua gestione, e al contempo mantenendo la disponibilità della documentazione “privata”.

Dai tempi di Herbert Hoover, che guidò gli Usa attraverso la grande depressione del 1929, i presidenti suggellano il proprio mandato istituendo un Library, per quanto la consegna dei documenti all’amministrazione federale risalga già a Roosevelt. Il fatto è che “biblioteca” in questo caso può essere un’espressione ingannevole, visto che ciò che gli ex presidenti lasciano in eredità è più che altro un archivio, che generalmente viene istituito nella località più significativa nella vita del Commander in Chief uscente. In ogni caso, se anche Trump dovesse dedicarsi un mausoleo di documenti, i ricercatori (e gli avversari politici, anche dentro il partito repubblicano) dovrebbero mordere il freno prima di mettere la mani su corrispondenza e documenti: per legge il materiale diventa di disponibilità pubblica dopo sei anni dalla fine di un mandato presidenziale.

D’altra parte questa incertezza sulla realizzazione della biblioteca è in tono con un’amministrazione che è stata soprattutto nel segno della suspense, dall’iniziale “farà davvero arrestare Hillary?” ai dubbi gemelli del finale: “Accetterà la transizione dei poteri?” e “Si darà la grazia da solo?”.

L’amministrazione Obama invece è stata nel segno delle prime volte, a cominciare ovviamente dalla storica prima volta di un afroamericano alla Casa Bianca. Inevitabile quindi che anche la biblioteca corrispondente sia da primato sotto più di un aspetto. Cominciando da quello più marginale, è notevolissimo il ritardo con cui nasce: pensata durante l’ultima presidenza Obama, che si concluse a gennaio 2017, la struttura comincerà a prendere forma a settembre, concretizzando il progetto degli architetti newyorkesi Tod Williams e Billie Tsien, marito e moglie, che in finale l’hanno spuntata su concorrenti come Renzo Piano.

La struttura sorgerà nella zona sud di Chicago e secondo quanto già annunciato a suo tempo comprenderà un campo da basket, un ristorante, posti in cui fare dei barbecue, un parcheggio sotterraneo e uno studio di registrazione. Un insieme di attività che secondo i critici porteranno alla gentrificazione di quell’area della città, rendendola più appetibile per le classi alte ed escludente per i residenti attuali. Secondo i calcoli della Obama Foundation, il centro attirerà 700 mila visitatori all'anno e genererà oltre tre miliardi di dollari in sviluppo economico per la città. Secondo il progetto la struttura si articolerà in tre edifici in pietra chiara, due elementi relativamente bassi sui quali giganteggia una torre. Quale dei tre ospiterà i documenti? Nessuno.

La vera rivoluzione rappresentata dalla Library di Obama è che sarà – tra quelle presidenziali – la prima interamente digitale.

Una scelta, spiegava l’Ansa annunciando per settembre l’inizio dei lavori, che ha fatto storcere il naso a diversi storici. Altri però - tra cui Dan Cohen, ex direttore della Digital Public Library of America (DPLA) - hanno spiegato che la digitalizzazione servirà ad abbattere le distanze geografiche ed ad allargare l’accesso agli utenti. Non solo, si tratta di una scelta più corretta dal punto di vista filologico: l’amministrazione Obama è “nativa digitale”, la grande maggioranza del materiale che ha prodotto è elettronico (il 95%, secondo la stima di Cohen. E rende l’idea della metamorfosi digitale dell’amministrazione federale considerare che il materiale custodito dalla biblioteca Clinton è analogico al 99%).

E se più di uno studioso preferirebbe comunque consultarsi con un archivista piuttosto che cercare un testo nella solitudine digitale della propria connessione, è impressionante la mole documentale che sarà messa a disposizione di qualunque navigatore: un miliardo di mezzo di pagine.

E non è l’unica novità assoluta: la biblioteca obamiana sarà finanziata dalla fondazione dell’ex presidente senza ricorrere ai fondi federali né a personale pubblico per farla funzionare. E se qualcuno storce il naso all’idea che la gestione di un patrimonio storico inestimabile di documenti sia fuori dalla gestione diretta della Nara, c’è chi applaude. A cominciare dal professor Benjamin Hufbauer dell’università di Louisville, autore di un libro sulle biblioteche presidenziali, che interpellato dal Chicago Tribune commenta così il carattere “privato” dell’iniziativa: “Sorprendente. Mi sembra una buona notizia. La maggior parte di queste strutture sono centri per la promozione dei presidenti, centri di propaganda portati avanti dal governo federale. L’amministrazione deve davvero fare cose del genere per i presidenti?”.

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