Oltre che Donald Trump, Kamala Harris dovrà sconfiggere anche la cabala. Spesso si pensa che essere il vicepresidente degli Stati Uniti in carica rappresenti un vantaggio per candidarsi poi alla presidenza e approdare alla Casa Bianca con le mostrine del comandante in capo. Ma la storia dice ben altro. Sono molto pochi i politici americani che sono riusciti a passare direttamente dal numero due al numero uno: appena quattro casi in circa 230 anni. E i primi tre (John Adams nel 1796, Thomas Jefferson nel 1800, Martin Van Buren nel 1836) risalgono ai primissimi decenni successivi alla dichiarazione di indipendenza. Anzi, a voler essere precisi, le vicende di Adams e Jefferson sono a loro volta peculiari, perché in quella fase il vice era il candidato sconfitto: quindi, in realtà, le loro successive vittorie costituirono di fatto dei casi di alternanza.

L’ultimo precedente

In ogni caso, nei quasi due secoli trascorsi dall’elezione di Van Buren, l’unico altro vicepresidente in carica che abbia vinto la corsa alla presidenza è stato George Bush padre, nel 1988, che in precedenza aveva fatto per due mandati il braccio destro di Ronald Reagan. Nei tempi relativamente recenti è capitato molto più spesso che il candidato-vice sia andato incontro a una sconfitta, dilapidando l’inerzia positiva che di solito favorisce l’amministrazione uscente: l’ultima volta è accaduto, in maniera abbastanza clamorosa, ad Al Gore, politico brillante e moderno che era stato per otto anni al fianco del presidente democratico Bill Clinton. Eppure, alle elezioni del 2000 perse contro un avversario decisamente più grigio e meno abile nei discorsi pubblici: un altro George Bush, in questo caso Bush figlio.

È vero che fu una sconfitta molto particolare, con Gore avanti per mezzo milione di preferenze nel voto popolare ma penalizzato da una controversa decisione della Corte Suprema (cinque giudici contro il ricorso del candidato democratico, quattro a favore) che assegnò a Bush i grandi elettori della Florida, dove la sfida si era conclusa quasi pari con forti sospetti di irregolarità. Ma sta di fatto che Al Gore perse. E lo stesso esito l’avevano avuto, sempre nella seconda metà del ventesimo secolo, i tentativi di altri due vice al termine del proprio mandato: Richard Nixon nel 1960 e Hubert Humphrey nel 1968.

Naturalmente non sono stati solo Adams, Jefferson, Van Buren e Bush senior a ricoprire sia l’incarico di vice che quello di presidente: è un onore capitato a 15 dei 49 vicepresidenti della storia degli Stati Uniti, quasi uno su tre. Ma gli altri sono arrivati quasi tutti allo Studio Ovale (il celebre ufficio riservato all’inquilino della Casa Bianca) subentrando al presidente: di solito in caso di morte, cosa che è accaduta otto volte, mentre solo Gerald Ford subentrò per via delle dimissioni del già citato Nixon.

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George Bush padre insieme alla moglie Barbara nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca

Quest’ultimo infatti, pur avendo perso nel 1960 (contro John Fitzgerald Kennedy) quando si era candidato da vice di Dwight Eisenhower, era poi riuscito a farsi eleggere ripresentandosi nel 1968. Ma a causa dello scandalo Watergate non riuscì a completare il mandato. Anche l’attuale presidente, Joe Biden, come Nixon è stato in precedenza vice, ma non ha fatto il salto al termine del doppio mandato del suo “superiore”, Barack Obama: si è candidato invece quattro anni dopo, nel 2020. Il passo indietro di Biden nei mesi scorsi, per altro, conferma un’altra tradizione negativa per i vice che aspirano a diventare presidenti: a parte Thomas Jefferson tra il 1800 e il 1808, anche quelli che sono riusciti nel loro intento non hanno poi mai potuto occupare la Casa Bianca per due mandati.

Le possibili ragioni

Iniziano a essere tanti gli indizi, per cui viene da pensare che non sia casuale questa scarsa fortuna dei vice nella corsa alla presidenza. Secondo alcune opinioni, potrebbe derivare dal loro ruolo relativamente in ombra: un po’ per la sua definizione vaga e molto per la frequente volontà dei presidenti di lasciare poco spazio ai rispettivi numeri due. Tra le eccezioni, in questo senso, viene citato Jimmy Carter, presidente tra il 1976 e il 1980, che concesse più spazio al suo vice Walter Mondale e anche, per la prima volta, un ufficio nella West wing, l’ala della Casa Bianca che comprende lo Studio Ovale. Cosa che comunque non impedì poi a Mondale di perdere rovinosamente contro Reagan, quando provò a sfidarlo nel 1984.

Del resto, “la natura del vicepresidente è quella di rimanere sullo sfondo, ed è difficile passare da questo a prendere la ribalta e convincere le persone che te lo meriti”, come ha sottolineato Christopher Miller, docente di scienze politiche all’Università di Richmond, citato da Patrick J. Kiger in un recente articolo su History.com. Considerazione che sembra confermare la definizione caustica, passata alla storia, con cui più di un secolo fa Thomas R. Marshall, vice di Woodrow Wilson dal 1913 al 1921, ebbe a descrivere il proprio incarico: “C’erano una volta due fratelli”, raccontò Marshall, “uno prese il mare e l’altro fu eletto vice presidente degli Stati Uniti. E non si seppe più niente di entrambi”.

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