Un falso storico, un marchio d'infamia grande quanto una nazione. Questo fu la scelta di battezzare come "influenza spagnola" un'epidemia che diede segno di sé innanzitutto negli Stati Uniti e poi colpì il pianeta in lungo e in largo. Tra il primo caso certo, il 4 marzo 1918, e l'ultimo certificato - nel marzo 1920 - ci furono tra i cinquanta e i cento milioni di vittime: il virus semplicemente uccise tra il 2,5 e il 5 per cento della popolazione mondiale.

IL PRIMO CASO Fu il ranciere Albert Gitchell a presentarsi di prima mattina all'infermeria di Camp Funston, Kansas, con mal di testa e febbre. Qualche ora dopo i medici contarono un centinaio di casi. Laura Spinney nel suo libro "L'influenza spagnola, l'epidemia che cambiò il mondo", spiega quel che accadde successivamente con una metafora: «Cinquecento altri milioni di persone seguirono Albert Gitchell in infermeria». In aprile l'epidemia era già tale nel Midwest e nelle città della costa orientale da cui partivano i soldati diretti ai porti francesi per combattere nella prima guerra mondiale. Si diffuse rapidamente nel resto della Francia, in Gran Bretagna, in Italia e, alla fine, in Spagna. Lì, in tre giorni si ammalò il sessanta per cento degli abitanti di Madrid, compresi il re, il primo ministro e mezzo governo. E il virus dilagò negli altri Continenti.

SCARICABARILE I polacchi la chiamarono «la malattia bolscevica», il Brasile la etichettò come «la tedesca, in Senegal «la brasiliana», il Giappone mise sotto accusa i lottatori di sumo perché il primo focolaio era stato registrato durante un torneo, i medici tedeschi obbedirono all'ordine di liquidarla come «pseudoinfluenza». Quando si capì che i morti in ogni singolo Paese erano solo diverse facce della stessa epidemia, i Paesi che avevano vinto la guerra la chiamarono «spagnola». La Spinney non ha dubbi: «Fu un falso storico scolpito nella pietra».

NOMI CELEBRI Paolo Mieli nel suo "Le verità nascoste" fa un elenco dei malati illustri: «Il poeta Guillaume Apollinaire morì di spagnola, così come toccò in sorte al ventottenne Egon Schiele, al cinquantaseienne Max Weber, all'autore di Cyrano de Bergerac Edmond Rostand». Ancora: «Franklin Delano Roosvelt», il futuro presidente «all'epoca vice ministro della Marina, fu contagiato su una nave per il trasporto delle truppe che viaggiava dalla Francia a New York. Fu contagiata anche la scrittrice statunitense Kathrine Anne Porter. Così come il tubercolotico Dashiell Hammett, Hernest Hemingway, John Dos Passos. Fu contagiato anche D. H. Lawrence che ne descrisse i disturbi nella figura del guarda caccia Mellors nell'Amante di Lady Chatterley. A Sigmund Freud morì di spagnola la figlia Sophie, incinta del terzo bambino. Franz Kafka raccontò d'aver contratto la malattia da suddito della monarchia asburgica e d'esserne poi riemerso da cittadino della democrazia ceca (considero l'accaduto - scrisse - un po' comico)». IL CASO SPAGNOLO Durante la Grande Guerra la Spagna era neutrale, quindi l'odiosa macchina della censura non era al lavoro per cancellare le notizie giudicate pericolose. Fu per questo motivo che i giornali dell'epoca poterono raccontare gli effetti dell'epidemia con abbondanza di dettagli. Scrive Laura Spinney: «Nei Paesi belligeranti le notizie relative all'influenza erano sottoposte a censura così da non demoralizzare la popolazione (i medici francesi vi si riferivano in modo criptico come "maladie onze", malattia undici)». Paolo Mieli indica il percorso che il venticello della calunnia seguì sino a diventare tempesta: «Francesi, inglesi e americani, ignorando che la malattia era nei loro Paesi da molto più tempo, con la complicità dei governi cominciarono a chiamarla influenza spagnola». FESTEGGIAMENTI FATALI La fine di una guerra, si sa, porta con sé bilanci tragici e festeggiamenti incontenibili. Figurarsi la reazione del mondo davanti alla conclusione della Grande Guerra. La pace riconquistata spinse milioni di persone a baciarsi e abbracciarsi. Un errore che pagarono caro. Ai posteri consegnarono la certezza del tutto infondata che l'epidemia fosse di matrice spagnola. Non è forse vero che la storia la scrivono sempre i vincitori? Paolo Paolini
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