Una debolezza molto provinciale che affligge noi vivi è quella di leggere le cronache dei fatti di ieri cercando segni premonitori di quello che – con la nostra onniscienza da contemporanei – sapremo che accadrà.

Eppure a guardare i resoconti di cinquant’anni fa, quelli che raccontano l’inaugurazione delle Torri Gemelle, fa neanche il più intellettualmente disonesto dei profeti postdatati troverebbe fra le righe, fra i dettagli di quella cerimonia un segno luttuoso, un ammonimento in codice sulla pessima fine che appena 27 anni e qualche mese più tardi avrebbe travolto quel complesso di vetro, cemento e acciaio costruito per durare secoli.

Qualche inciampo ci fu, ovviamente, qualche granello di sabbia fece stridere i meccanismi della celebrazione di quell’architettura colossale. Ma non fu nulla di tragico né di significativo. Giusto un paio di defezioni, in realtà, delle quali diede puntualmente conto il New York Times nella sua cronaca di quel mattino del 4 aprile 1973. Per esempio il segretario al Lavoro, Peter J. Brennan, si rifiutò di portare il messaggio del presidente Nixon: per raggiungere il luogo dell’inaugurazione avrebbe dovuto attraversare un picchetto di ferrovieri in sciopero e a lui, vecchio sindacalista di fede democratica arrivato al governo con un presidente repubblicano, non passava neanche per la testa. Perciò il messaggio di Nixon fu letto dal presidente del consiglio d’amministrazione dell’autorità portuale James C. Kellogg terzo. Il testo sfornato dalla Casa Bianca in ogni caso non doveva essere una cannonata, se il giornale si limita a riportare una frasetta striminzita di Nixon, che salutava nel World Trade Center uno dei “maggiori fattori di espansione del commercio internazionale della nazione”.

Parve un po’ più ispirato il governatore Nelson Rockefeller, che definì le Torri “un grande matrimonio fra utilità e bellezza” e dichiarò chiusa l’epoca in cui bisognava “arrancare da un palazzo all’altro” per fare affari con lo Stato di New York, che fra l’altro – sottolineò ancora il governatore con un certo orgoglio – si avviava ad essere il principale inquilino del WTC.

Non gli fece perdere il buonumore la gaffe commessa verso il collega William T. Cahill, governatore del New Jersey: mi rendo conto – sorrise verso la fine del suo discorso Rockefeller – che tutti i riferimenti al porto che ho fatto nel mio discorso citavano solo New York, “in effetti sembra un po’ unilaterale”. Però lo strappo al cerimoniale più evidente fu l’assenza di Austin J. Tobin, per tutti l’uomo che aveva dato il via libera al World Trade Center. Entrato come impiegato nell’autorità portuale della metropoli, ne scalò la gerarchia fino a diventarne un leggendario direttore generale, l’uomo che fece passare l’organico dell’ente da trecento a ottomila dipendenti e portò sotto il controllo dell’autorità portuale gli aeroporti La Guardia e Newark.

All’inaugurazione del suo capolavoro amministrativo non si fece vedere, nonostante fosse in pensione da qualche tempo e avesse tutto il tempo per partecipare alla cerimonia. Quando i giornalisti gli chiesero il motivo dell’assenza rispose laconico: “Pioveva”.

Fin qui l’aneddotica (minima) da inaugurazione solenne.

Forse chi nel 2001 vide in diretta tv gli aerei dirottati dai terroristi di Al Qaeda schiantarsi sulle Torri troverebbe più significativo, e in fondo più straziante nel suo ottimismo sviluppista, l’elenco dei dati che il giornale chiamava a testimoniare l’unicità del complesso delle Torri Gemelle. Un progetto da 700 milioni di dollari firmato dall’architetto Minoru Yamasaki, riepilogava il New York Times del 5 aprile 1973, due grattacieli alti 1.350 piedi, vale a dire 100 più dell’Empire State Building: quello appena sorto nella Grande Mela sarebbe stato l’edificio più grande del mondo almeno ancora per un po’ di tempo, visto che la Sears Tower di Chicago una volta completata sarebbe a sua volta di 100 piedi più alta.

E poi le fondamenta gigantesche, i generatori diesel per alimentare l’energia delle Torri in caso di black out, i 6.500 sensori per regolare il riscaldamento delle pompe di calore, la previsione di 80mila visitatori quotidiani una volta che quella enorme macchina da business fosse andata a regime.

Per 27 anni e qualche mese fu l’orgoglio della metropoli del Nuovo Mondo. Poi una mattina svanì dallo skyline nel giro di un’ora e 42 minuti e noi entrammo in un mondo nuovo.

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