In poche ore le sue parole hanno fatto il giro del mondo. Ryan Jones è un monumento del rugby mondiale, ex capitano del Galles, terza linea da 75 caps con i Dragoni, 3 caps con i British & Irish Lions. Un terza linea, mai paura. Nei giorni scorsi ha rilasciato un’intervista che ha scosso dalle fondamenta il mondo della palla ovale. L’argomento è quello che rischia di cambiare per sempre le regole del gioco: concussions, commozioni cerebrali.

Jones ha parlato al Sunday Times di quello che gli sta succedendo, un racconto tanto drammatico quanto commovente. “Mi è stata diagnosticata una forma di demenza precoce e ho paura: sento che il mio mondo sta andando in pezzi. Ho tre figli e tre “figliastri”: vorrei cercare di essere un padre splendido”.

Il capitano parla chiaro: “Non so cosa mi riserverà il futuro. Ho vissuto 15 anni da supereroe, anche se non lo ero. Sono sempre stato abituato a vivere con le persone, a fare gruppo e ora non posso fare nulla di tutto questo. Vorrei solo vivere una vita tranquilla”.

Jones ha qualche indizio su che cosa gli stia succedendo. “Mi è stato portato via qualcosa e non posso farci niente. Non posso più allenarmi e non posso neppure più fare l’arbitro delle partite dei ragazzi quando giocano a rugby, perché in alcuni momenti non ricordo le regole del gioco”.

Fin troppo facile intuire come il problema si legato ai traumi subiti da giocatori durante la loro carriera, lunga come nel caso di Jones. L’incidenza di queste malattie negli ex rugbisti è molto alta e da tempo si chiede una regolamentazione più severa. È in gioco lo stesso spirito del gioco.

“Il mio futuro è incerto, questi momenti di dimenticanza non so quanto durano, a volte una, due o tre settimane e non so come e quanto progredirà la malattia. La paura ormai è dentro di me, non riesco più a scrollarmela di dosso”.

Jones ha combattuto e vinto con tantissimi avversari. Ma questo è davvero difficile da tirare giù. “Tutto sta diventando difficile, dalle piccole cose quotidiane al rapportarsi con le persone nelle relazioni. Vorrei capire come far rallentare la malattia, ma non si può”.

Infine ha così concluso: “Non baratterei mai le mie esperienze col Galles per quello che mi è successo. Non so se ciò che mi stia succedendo è legato ai traumi subiti mentre giocavo, tuttavia il rugby in generale deve fare di più per la tutela dei giocatori aumentando le misure preventive. La situazione è spesso catastrofica dopo che si smette di giocare, le Federazioni non devono chiudere gli occhi su queste cose”.

Il problema è molto serio. Sono in ballo risarcimenti milionari ma questo è il problema minore. Le cure per queste forme di demenza sono molto costose e oltre Manica cominciano a porre il problema in maniera diretta. Il Guardian qualche giorno fa ha schiacciato in meta.

Da tempo, sempre secondo il giornale inglese, alcuni giocatori veterani hanno intentato una causa, indipendentemente dalla responsabilità. “Lo scenario migliore è che le diagnosi fatte ai giocatori di probabile Cte siano sbagliate. Il danno cerebrale che hanno subito è innegabile, ma le condizioni che ne derivano sono degenerative? Moriranno per esse?”

In Inghilterra un'altra notizia ha fatto molto discutere. Il dottor Adam White, direttore esecutivo della Concussion Legacy Foundation (Regno Unito), ha condotto una ricerca sull’esperienza delle famiglie colpite da Cte su entrambe le sponde dell’Atlantico. I medici hanno diagnosticato forme importanti di Cte in atleti di soli  20 anni.

Gli organi di governo del rugby dovrebbero iniziare a mettere da parte sin da adesso dei fondi da destinare all’assistenza dei giocatori colpiti da Cte. Prima che sia troppo tardi. Non tutti saranno capaci di far fronte da soli alle spese. Il discorso è chiaro. Una risposta deve essere data. Per Jones, che vuole solo essere un buon padre, e per tutti gli appassionati di questo straordinario sport.

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