Un tempo, anche in secoli piuttosto recenti, si pensava che una guerra facesse bene all’economia di uno Stato, perché la conversione dell’industria in produzione bellica, chiaramente pagata dalle casse pubbliche, faceva aumentare gli incassi. È accaduto anche all’Italia negli ultimi secoli e ad altre economie europee, tranne quando poi la guerra è stata persa e, come accaduto alla Germania, lo Stato ha dovuto pagare pesanti tributi agli altri Paesi.

Oggi, invece, la guerra crea solo disastri dal punto di vista economico. A dirlo è uno studio, “The Price of War”, realizzato da un istituto di ricerca, un think tank tedesco, l’IfW Kiel Institute, che si è preso la briga non solo di quantificare i costi della guerra, ma anche di mettere a punto un modello di calcolo che renda possibile facilmente arrivare a valutare le perdite di Prodotto interno lordo causate da un conflitto. I risultati sono dunque facili da individuare e dipendono non solo dai Paesi coinvolti, ma anche dall’interconnessione delle economie.

I numeri

Secondo l’istituto tedesco, negli Stati dove scoppia e si consuma un conflitto di grandi dimensioni, la perdita del Pil reale si aggira mediamente intorno al 30% con un’inflazione che può anche arrivare al 15%. Non solo. Lo stock del capitale, nel decennio successivo al conflitto, arriva a ridursi anche del 20%. I calcoli del think tank si basano su uno studio accurato che ha messo a confronto i conflitti avvenuti nel mondo tra il 1850 e oggi, compresa la guerra in Ucraina. Se è vero che si producono più armi e si spende su questo fronte, anche se oggi non sempre si possono realizzare in proprio, come ad esempio insegna l’esperienza di Kiev o anche la guerra in Medio Oriente, è pur vero che il Paese in guerra subisce molte perdite sul fronte dei macchinari e della capacità manifatturiera. Non bisogna infatti dimenticare che proprio le industrie spesso diventano obiettivi bellici.

L’esperienza delle guerre passate, spiegano all’IfW Kiel Institute, permette di fare delle previsioni sul conflitto tra Ucraina e Russia. L’Ucraina potrebbe perdere circa 120 miliardi di Pil e quasi mille miliardi di dollari in capitale sociale entro il 2026, sempre che le armi da fuoco non continuino a detonare per molti anni ancora. Non solo. I danni anche per Paesi non belligeranti, confinanti o con forti rapporti commerciali con l’Ucraina, subiranno molte perdite. Si parla di perdite di produzione pari a 250 miliardi di dollari, 70 nella sola Unione europea. Basti pensare a come i Paesi Ue si sono dovuti riposizionare su alcuni fronti, come il commercio del grano o del gas, dopo l’esplosione del conflitto tra Russia e Ucraina. Peraltro, l’istituto di ricerca tedesco spiega che quanto più gli Stati sono vicini, tanto più subiscono perdite pur non essendo coinvolti direttamente nel conflitto. È vero anche che Paesi lontani potrebbero invece avere dei vantaggi, basti pensare alla crescita esponenziale del commercio di gas naturale liquido per Stati Uniti e Qatar dopo l’avvio della cosiddetta “Operazione speciale” dello zar Putin contro Kiev, e il taglio delle forniture da parte di molti Paesi, conseguenza anche delle sanzioni contro Mosca. In ogni caso, però, nei Paesi maggiormente coinvolti perché vicini, si calcola un’inflazione di 5 punti percentuali in più. “A seconda della durata e dell’intensità della guerra sono ipotizzabili scenari più o meno gravi”, spiega Jonathan Federle, ricercatore del Kiel Institute e autore dello studio. Un caso limite, ad esempio, è Taiwan dove lo scoppio di una guerra potrebbe portare a perdite globali pari a circa 2,2 trilioni di dollari in cinque anni. Questo perché l’integrazione dell’economia del piccolo Paese, ma molto prolifico soprattutto sul fronte dei prodotti innovativi e legati al digitale, potrebbe causare una vera catastrofe.

Mar Rosso

Un altro esempio potrebbe arrivare da quanto sta accadendo nel Mar Rosso con i continui attacchi da parte degli Houthi dello Yemen alle navi commerciali che vanno verso il Canale di Suez per arrivare poi al centro del Mediterraneo e addirittura fino al Nord Europa passando dallo Stretto di Gibilterra. A parte la perdite del cosiddetto bunkeraggio, ossia il rifornimento delle navi, che costerà caro anche all’Isola visto che il Sud Sardegna vede spesso la sosta di navi per questo scopo, un flusso di container trasportato via mare ha già preso la via del Capo di Buona Speranza, tagliando il Mediterraneo dalle rotte. Solo nel Sud dell’Isola passano annualmente circa 55.000 navi. Attraverso il canale di Suez e il Mar Rosso, fino ad ora, passava il 12 per cento del commercio mondiale, con una rotta che partendo da Shangai e passando dal Mediterraneo arrivava nel Nord Europa percorrendo 8.440 miglia nautiche che diventano invece 11.720 se si deve doppiare l’Africa e risalire tutto l’Atlantico. I costi di trasporto sono nettamente più ampi con 6.000 dollari a container invece di 3.000, la crescita di circa un milione per il nolo di una nave e l’allungamento dei tempi di consegna e di conseguenza un grosso favore all’inflazione, con l’aumento dei prezzi che rischia di non rallentare, facendo crescere invece l’esborso per i consumatori finali.

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