“E se per caso venisse fuori che il nonno è una totale testa di c…?”. Bella domanda. Per il momento è venuto fuori che i russi più critici verso Putin lo chiamano “nonnetto”. E poi che Evgenij Prigozin, stratega e proprietario della divisione Wagner, si sente così indispensabile nella guerra all’Ucraina che osa sfotticchiare il grande capo.

Ma al di là dell’impudenza del capo mercenario è interessante che il nomignolo di Putin sia proprio quello. Cioè un appellativo che da un lato sgonfia tutta la retorica machista dello zar, che prima di chiudersi nel bunker per sfuggire ieri al Covid e oggi agli attentati amava farsi fotografare a torso nudo o in tenuta da judoka, ma dall’altro non suona poi così aggressivo e sprezzante come ci si potrebbe aspettare da un soprannome affibbiato dagli oppositori. In effetti però non è il primo caso: A Torino, città che non lo amò mai, Mussolini per tutti era Monsù Cerutti, un nomignolo tutto sommato innocuo, evocativo di una figura familiare fino alla banalità (almeno finché non saltava fuori la rima: “Monsù Cerutti, quello che lo ficca in quel posto a tutti”) mentre a Nuoro il Duce per molti era “Peppe”. Addirittura i nemici di Xi Jinping, e in particolare i taiwanesi, sono andati sarcasticamente a scovare uno dei cartoni animati più teneri e rassicuranti e lo chiamano “Winnie The Pooh”.

Può sembrare bizzarro che per ribattezzare gli autocrati il popolo tenga un registro nel complesso moderato, ironico ma non feroce. Eppure uno scrittore e storico dell’età contemporanea come Luciano Marrocu non ne è stupito: “Intanto direi che per definire autocrati figure come Mussolini, Hitler e Stalin ci vuole un certo aplomb: per uno come Orban direi che può andare bene, quegli altri li chiamerei più utilmente dittatori. Ora, in genere i soprannomi si danno per riportare chi ne è oggetto dalla condizione di lontano e diverso al vicino e conosciuto. In un certo senso si tratta anche di familiarizzarlo: Monsù Cerutti e Peppe sono affettuosamente familiarizzanti, ma anche quando gli americani chiamavano Stalin “Zio Joe” il meccanismo in fondo era lo stesso, e l’esplorazione potrebbe continuare. Più in generale però possiamo dire che il tema dei soprannomi ci avvicina a quello più ampio del rapporto fra i dittatori e il loro pubblico, che è per definizione la nazione. Il dittatore si ritaglia un pubblico che include tutti, anche i bambini e i nonni. Insomma, ci sono due aspetti apparentemente contrapposti: il dittatore si rivolge alla nazione nel suo complesso, parla dal balcone o dal rostro, come Mussolini alla fondazione di Carbonia; e poi le adunate di Hitler, ancora più potenti di quelle del Duce perché inquadrate, suggestive, con quelle fiaccole nella notte…

Beh, lui aveva a disposizione Leni Riefenstahl.

Sì, grandissima scenografa, ma qui più in generale l’idea è quella della folla, nella quale tu ometto singolo e insignificante diventi altro, sei tu la folla, attraverso meccanismi che sono per definizione emotivi. Dall’altro lato però c’è la storia privata dei dittatori. Che può essere anch’essa mitologizzata - pensiamo a Mussolini con Donna Rachele, la famiglia, la massaia d’Italia – ma intanto penetrano tra la gente notizie sul loro privato. A volte sono fatte filtrare ad arte, in altri casi diventano di dominio pubblico semplicemente perché la gente parla, parlano anche quei pochi che hanno accesso alla cene private di Stalin e di Hitler poi le raccontano.

E che cosa raccontano?

Che li accomunava una cosa: a tavola facevano discorsi lunghissimi e tremendamente noiosi. Poi a un certo punto la cosa veniva interrotta dalla proiezione di film, che nel caso di Stalin erano certamente americani ma suppongo che li guardasse anche Hitler. La differenza era che dopo cena Stalin si abbandonava molto più di Hitler all’orgia alcolica e lì c’è la famosa storia, che non si sa se sia vera ma certamente è espressiva anche del clima di terrore che c’era in quelle serate, di Stalin che ordina “Balla, porcellino!” e Krushev che zampetta sul tavolo cercando di fare il ballo russo. Che immagino fosse particolarmente complicato da eseguire da ubriaco.

Uno immagina che una cena col detentore del potere assoluto sia un’esperienza eccitante.

E invece no: noia e potere, noia e potere! C’è una frase di Saul Bellow nel “Dono di Humboldt” che lo dice in maniera esemplare. Prima si chiede: “Che cosa potrebbe esserci di più noioso dei lunghi pranzi che dava Stalin?”. E poi, e qui leggo perché a memoria sbaglierei: “I commensali mangiavano e bevevano, poi a mezzanotte gli toccava sorbirsi un film western americano. I deretani gli dolevano, c'era il terrore nei loro cuori. Intanto che rideva e chiacchierava, Stalin sceglieva quelli cui sarebbe toccata la mazzata fra capo e collo; e costoro, nel mentre che s'ingozzavano e ruttavano, si rendevano conto che fra poco sarebbe giunta la loro ora, che sarebbero stati fucilati. In altre parole: che cosa sarebbe la noia moderna senza il terrore? Uno dei documenti più noiosi di tutti i tempi è senz'altro lo spesso volume delle “Conversazioni a tavola di Hitler”. Anche costui invitava la gente ad assistere a film, a mangiare pasticcini, bere caffè con Schlag, e intanto l'annoiava a morte, discettando spiegando teorizzando. Tutti quanti crepavano di noia e di paura, non osavano neanche andare al gabinetto”. Il dittatore è noioso, insomma, perché non avendo sensibilità verso chi ascolta non si rende conto se deve tagliare il discorso, se è tempo di tacere.

Si attaglia perfettamente anche a Castro.

Decisamente. Consideriamo questo: la rivoluzione a Cuba vince il primo gennaio e il 2 gennaio c’è il primo discorso di Castro. Ora, la linea del Movimento 26 Luglio era la restaurazione democratica instaurata nel ’40 da Batista, che poi nel ’52 la revoca con il colpo di stato. Eppure quando cominciano a chiedergli quando ci saranno le elezioni Castro glissa, diciamo così, e si fa strada questa strana costituzione materiale che si crea nei suoi comizi, nei quali chiama direttamente in causa il popolo cubano. “Siete voi – dice alle persone che lo stanno ad ascoltare – il popolo di Cuba”. E parla per ore, rilanciato dalla televisione. E poi le interviste in tv, che sono incredibili perché l’intervistatore gli fa mezza domanda e lui parla per un’ora, un’ora e mezza. Teniamo conto che quando in Italia la televisione ancora non c’era, a Cuba nel ’52 c’erano quattrocentomila apparecchi televisivi su una popolazione di sette-otto milioni di abitanti.

E in ciascuno c’è Castro che parla.

E parla per ore. E non dico che li prenda tutti per noia, anche perché è un oratore fascinoso ed è grande e grosso e ha il fisico del ruolo, ma comunque per stanchezza sì. E il regime diventa questo: Fidél parla e tra le centomila le cinquecentomila persone lo ascoltano in piazza, all’Avana, e gli altri lo seguono alla radio o in tv. Questa è la nuova costituzione cubana.

Quindi il soprannome, davanti a personalità così debordanti, serve a ridimensionarle.

Sì, il soprannome le riporta a una dimensione di maggiore gestibilità. Ma anche a una dimensione più umana, in qualche modo. In effetti quel soprannome “Peppe” dato a Mussolini sembra inventato da uno spin doctor abilissimo.

Ne aveva anche Hitler?

Penso di sì ma io non sono un esperto del regime nazista, ho letto molto di più sulla fase in cui il nazismo arriva al potere. Da quel che so e dalle piccole ricerche che ho fatto risulta un acronimo, GröFaZ, che sta per “Il più grande condottiero di tutti i tempi”. Detta così sembra una cosa da barzelletta, un soprannome di regime, ma se consideriamo che comincia a circolare quando la guerra per la Germania si stava mettendo sempre peggio è evidente che aveva una profonda sfumatura sarcastica.

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