La storia apparentemente è molto semplice e poco rilevante: dopo quattro anni il Belgio ha vinto una controversia legale contro la Colombia, che applicava dazi fra il 3 e l’8 per cento sulle sue patate fritte.

In effetti la parola dazi da alcuni anni è evocativa di battaglie commerciali molto più intense, a cominciare dallo scontro fra Usa e Cina e dalle enormi zavorre doganali inflitte da Trump nel 2018 sull’acciaio (25 per cento) e l’alluminio (10 per cento), e poi rimosse da Biden nel 2021 almeno per i produttori europei.

Eppure la disputa sulle patatine ha una sua rilevanza, e per almeno un aspetto rappresenta un’ottima notizia anche per Paesi come il nostro, che pure non hanno un export di tuberi significativo, ma soprattutto uno smacco per gli Stati Uniti.

La controversia comincia nel 2018, quando la Colombia decide di penalizzare fiscalmente le importazioni di patate fritte surgelate per tutelare i propri produttori: Belgio, Paesi Bassi e Germania fanno dumping, accusa Bogotà, invadendo il nostro mercato di prodotti dal costo artificialmente basso. Non è un fenomeno irrilevante per l’economia della Colombia, dove produzione, lavorazione e commercializzazione delle patate rappresentano il perno economico per circa 400mila famiglie.

Ma Belgio e Paesi Bassi non possono accettare la ritorsione senza reagire. Un po’ per una questione di immagine, visto che le patate fritte sono l’orgoglio gastronomico e la pietanza nazionale belga (e pazienza se per scoprire l’esistenza delle patate gli europei hanno dovuto aspettare che Colombo si imbattesse nel continente americano). Ma soprattutto per una questione economica di assoluto rilievo. Se parliamo di patate in generale il primo produttore al mondo è la Cina, al secondo posto c’è l’India e poi – almeno secondo i dati anteguerra – Russia e Ucraina. Per trovare il Belgio bisogna scendere oltre il ventesimo posto, prima della Colombia ma con un distacco non enorme. Il fatto è che se invece parliamo di patate fritte surgelate la mappa cambia completamente, visto che in questo settore più circoscritto oltre la metà dell’export planetario è nelle mani di Belgio (28 per cento) e Paesi Bassi (24).

In sostanza: il Belgio su scala mondiale è un produttore di patate medio, però il 90 per cento della sua produzione lo surgela e lo esporta sotto forma di patatine fritte. Perciò davanti ai dazi colombiani, che restringono drasticamente l’accesso a un mercato da 20 milioni di euro, non può stare fermo. E quindi chiede all’Unione europea di denunciare al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, le politiche antidumping colombiane. Ci vuole esattamente un anno perché l’Europa si metta in moto: a novembre 2019 la commissaria europea per il commercio, la liberale svedese Cecilia Malmström (a Bruxelles c’è ancora la commissione Juncker) denuncia le tariffe doganali colombiane. Il reclamo comincia il suo iter e nel giro di pochi mesi per il Belgio si trasforma da dossier importante a questione strategica: nel 2020 scatta il lockdown per contenere il Covid e i consumi interni, con ristoranti e fast food chiusi, crollano. Romain Cools, segretario generale di Belgapom – una sorta di confindustria belga delle patate – chiede ai connazionali di mangiare patate fritte almeno due volte la settimana, con 750mila tonnellate di prodotto che rischiano di finire al macero anziché nei congelatori. Tra l’altro non solo il Covid e i lockdown hanno ridotto la capacità di assorbimento di molti mercati esteri al pari di quello interno, ma anche nuovi Paesi cominciano a mettere nel mirino l’export belga a basso costo, con la Nuova Zelanda che parla apertamente di dumping e studia reazioni ritorsive.

Per il Belgio diventa un’esigenza sempre più pressante una pronuncia del Wto, che sblocchi l’accesso al mercato colombiano e soprattutto dissuada altri Paesi dal penalizzare un export che per il piccolo Paese europeo vale 2 miliardi l’anno. E finalmente nell’ottobre 2022 il verdetto dell’organizzazione mondiale del commercio arriva ed è favorevole al Belgio: i dazi vanno rimossi. La Colombia naturalmente non condivide e vuole fare appello, ma c’è un problema: per boicottare il potere giurisdizionale del Wto, che le ha inflitto più di un dispiacere e le sembra sempre più filo-cinese, l’America blocca la nomina dei rappresentanti dell’organo di appello. E senza un processo di secondo grado – ricordava nei giorni scorsi sul Corriere della Sera il giurista Filippo Fontanelli – le decisioni di primo grado, se impugnate, restano senza effetto. Ma per il dossier delle “frites” è stata trovata una soluzione, ed è questo che rende l’esito della controversia molto importante non solo per il Belgio ma per tutti i Paesi che finora hanno visto le loro richieste di giurisdizione commerciale frustrate dall’immobilismo imposto dagli Usa. Si tratta – spiegava l’Ansa dopo il pronunciamento – del primo caso in appello trattato secondo un accordo procedurale messo in atto da molti Paesi per compensare la paralisi. A rendere possibile il verdetto è il fatto che la Colombia, come altri 17 Paesi e l’Unione europea, fa parte dell’Mpia, il Multi-party Interim Appeal Arbitration Arrangement. Da un punto di vista generale quindi le patatine belghe sono molto più indigeste per Washington che per Bogotà, visto che in loro nome è entrato in azione un embrione di regolamentazione del business che finora il protezionismo in stile “America first” aveva rinchiuso nel congelatore.

E dire che gli Stati Uniti nel 2003 avevano scelto proprio le patate fritte come campo per una ritorsione simbolica e non sottoponibile al giudizio del Wto: disgustati dal rifiuto di Chirac di appoggiare all’Onu l’invasione dell’Iraq, non pochi ristoratori americani e addirittura i menu dei bar del Congresso ribattezzarono “freedom fries” quelle che fino ad allora erano note come “french fries”. Ma la rappresaglia non ebbe particolare effetto: l’ambasciata francese si rifiutò di commentare, il produttore di mostarda French dovette affannarsi a spiegare ai consumatori che si trattava di un cognome e non di un’indicazione di origine geografica e un sondaggio Gallup del 2005 chiarì che se il 33 per degli americani trovava “patriottico” il cambio di denominazione delle patatine, per il 66 era “un’idea stupida”. Nel 2006 i menu del Congresso tornarono all’indicazione “french”. Non si sa se abbia fatto lo stesso il ristorante californiano che dopo l’invasione dell’Iraq lanciò le “Impeach Gerge W. Bush Fries”.

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