“Con lui ho giocato 40 partite in nazionale e non abbiamo mai perso”. Pelé si è concesso il beneficio della sintesi racchiusa in un tweet per il tributo a Garrincha nel giorno (28 ottobre scorso) in cui la favolosa ala destra del Brasile avrebbe compiuto 89 anni. Mito o leggenda, leggenda o mito, cosa importa? Non ha forse qualcosa di sacro un atleta cui Dio dona un talento quasi soprannaturale a dispetto di una malformazione alla schiena, di una gamba sei centimetri più corta dell’altra, di una poliomielite che avrebbe potuto ucciderlo? No, non è stata la malattia a togliere la vita a Garrincha e il sorriso al popolo verdeoro che ha avuto la fortuna di vederlo vincere due mondiali, irridere i terzini di mezzo mondo con il suo dribbling stretto, ossessivo e ubriacante. “Pelé lasciava lo stadio a bocca aperta. Garrincha lo faceva ridere a crepapelle. O Rei rasentava la perfezione, come Michelangelo. Mané rallegrava, come Van Gogh. L’Atleta del secolo era Spielberg. L’Allegria del popolo» era lo stesso Chaplin. Uno ricordava Beethoven, l’altro, Mozart”. Gigi Potacqui, creatore della pagina Facebook Romanzo calcistico, cita le parole che il giornalista paulista Juca Kfouri utilizza per spiegare “cosa abbia rappresentato Garrincha per il suo popolo, il legame emotivo che li univa, persino più intenso di quello con il leggendario Pelé”.

Garrincha e Pelé (foto da Internet)
Garrincha e Pelé (foto da Internet)
Garrincha e Pelé (foto da Internet)

Nel libro di Potacqui, Settimo cielo – Il romanzo del numero 7, il nome di Garrincha rifulge insieme a quelli di Best e Cristiano Ronaldo, tanto per citare i più celebri. “Ancora oggi” scrive Potacqui citando un detto popolare, “se chiedi a un vecchio brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange”. Lo ricorda con affetto e stima, ancor oggi, Amarildo che con lui giocò il mondiale del ’62 sostituendo l’infortunato Pelé. Di lui, diversi anni fa, parlò anche Josè Altafini, un altro grande del calcio sudamericano. “Nel mio grande Brasile – disse – il mitico Garrincha era più decisivo di Pelé”. Così, per dire. “È come se tra i due eroi del calcio carioca – è ancora Gigi Potacqui che scrive - ci fosse un contraddittorio continuo e la contrapposizione trascendesse il modo di stare in campo per toccare due modi diversi di affrontare la vita. Pelé è la celebrità, il giocatore-atleta, campione universale e stella amata da tutte le classi sociali. Oltre che dagli sponsor, perché - conclude Potacqui - è il primo a vendere la sua immagine «forte e pulita» nel mondo. Garrincha non si accorge nemmeno di essere un idolo”.

Eppure lo era. Nella nazionale brasiliana più forte di tutti i tempi, schierata da Vicente Feola con il primo 4-2-4 della storia, brillano le stelle di Garrincha e Pelé ma splende anche il talento cristallino del terzino sinistro Nilton Santos, detto l’Enciclopedia del calcio vista la sua eccellente visione di gioco e le sue doti tecniche fuori dal comune. Tre tenori che uniti alle altre voci di quel fantastico coro trionfano nel mondiale del 1958 in Svezia (dove nascerà uno dei quattordici figli che Garrincha lasciò sparsi per il mondo), si ripetono nel 1962 in Cile e non fanno tris in Inghilterra quattro anni dopo solo per mero accidenti.

La formazione del Brasile che vinse i campionati del mondo di calcio nel 1958 in Svezia, Garrincha è il primo in basso a sinistra (foto Storie di calcio)
La formazione del Brasile che vinse i campionati del mondo di calcio nel 1958 in Svezia, Garrincha è il primo in basso a sinistra (foto Storie di calcio)
La formazione del Brasile che vinse i campionati del mondo di calcio nel 1958 in Svezia, Garrincha è il primo in basso a sinistra (foto Storie di calcio)

Nella storia anche Didì, Vavà, Djalma Santos, difensore gentiluomo mai espulso in carriera, e il portiere Gilmar. Ancora Bellini e Orlando in Svezia nel 1958, Mauro e Zosimo nel 1962. Che dire poi di Mario Zagalo, che vinse due mondiali da giocatore e uno da allenatore, in Messico, al timone di un Brasile che contende a quello guidato da Feola il titolo di miglior squadra di sempre. 

Garrincha, tra ascese e cadute di una vita spericolata, è sempre nazionale, la maglia numero 7 cucita sulla pelle, fino alla spedizione del 1966 in Inghilterra, quella che per l’Italia sancì la vergogna della disfatta con la Corea del nord. Tra un trionfo e l’altro Mané non recide mai le sue radici, non tronca le abitudini che lo porteranno alla tomba a quarantanove anni. Beve, dorme per strada, poi si allena, torna a giocare e a strabiliare il popolo degli stadi con le sue magie. Il modo di vivere lo accomuna a un altro grande talento del calcio, George Best, nordirlandese del Manchester United che di se stesso un giorno avrebbe detto: “Per un periodo ho rinunciato a donne e alcol. È stato il quarto d’ora più brutto della mia vita”. Best e Garrincha, Garrincha e Best, agli antipodi rispetto a due atleti rigorosi come ad esempio il baronetto inglese di ieri Stanley Matthews, che giocò fino a oltre cinquant’anni, o il Cristiano Ronaldo di oggi. Garrincha era di un altro mondo e viveva in un mondo, calcistico, che non tornerà più. Come Diego Armando Maradona ha regalato gioia agli altri e dolori a se stesso, a differenza del Pibe de oro è morto povero e in solitudine. L’averlo dimenticato nel momento del bisogno, per il Brasile, rimane una ferita aperta, sebbene la memoria delle gesta di Garrincha resti impressa in tutti gli appassionati.

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