L’ascesa di Salvatore “Totò Riina” alla guida di “Cosa Nostra”, la mafia siciliana, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, non poteva non avvalersi di assassini dalla mira infallibile e dalla freddezza pressoché totale. Lo chiamavano lo “squadrone della morte” ed era composto da Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, Mario Prestifilippo, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, i fratelli Giuseppe e Antonio Marchese e il loro zio Filippo Marchese, giusto per citare quelli che nel loro poco invidiabile curriculum criminale possono vantare qualche decina di omicidi ciascuno. Ma ad eccellere, in particolare, furono Greco, Prestifilippo e Filippo Marchese: ecco i loro ritratti.

Giuseppe Greco (1952-1985)

Pino Greco Scarpuzzedda
Pino Greco Scarpuzzedda
Pino Greco Scarpuzzedda

Pino, così lo chiamavano tutti, era figlio di un mafioso palermitano. E sin da ragazzino, nonostante fosse una sorta di studente modello, venne educato nello stesso ambiente familiare a maneggiare armi di qualsiasi genere. Bravissimo in greco e in latino, fu promosso con il massimo dei voti al liceo classico. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza ma l’altra attività, che aveva iniziato durante gli studi liceali, gli impedirono di andare avanti. Il suo primo omicidio dicono lo abbia commesso a 18 anni. Poi, una escalation che lo avrebbe portato ad assumere il ruolo di capomandamento di Ciaculli, importante borgata di Palermo. Gli sono stati addebitati con assoluta certezza 58 omicidi, tra qui quelli del giudice Rocco Chinnici, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, del parlamentare del Pci Pio La Torre, del commissario Ninni Cassarà, dell’agente di polizia Calogero Zucchetto, per rimanere nel campo dell’antimafia. Sul fronte delle cosche rivali, “Scarpuzzedda” eliminò i boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, delle famiglie palermitane di Santa Maria del Gesù e di Passo di Rigano, Rosario Riccobono di Partanna-Mondello, il catanese Alfio Ferlito, potentissimo capomafia in guerra con il clan Santapaola (alleato di Riina). Greco era crudele e spietato al punto che rapì il figlio 15enne di Inzerillo che al funerale del padre aveva detto che un giorno lo avrebbe vendicato uccidendo Totò Riina. Con un’ascia gli tagliò il braccio destro e, irridendolo mentre il ragazzo urlava di dolore e piangeva, gli chiese: <Ora come lo ucciderai Riina?>. Quindi gli diede il colpo di grazia e sciolse il cadavere nell’acido. Ma la cocaina, di cui Greco faceva abbondante uso, e la fama che cresceva insieme al numero delle sue vittime per Riina non erano più sopportabili, non sia mai che si mettesse in testa di prendere il suo posto. Così il boss corleonese decretò la sentenza di morte di “Scarpuzzedda”. L’incarico venne affidato a Giuseppe Lucchese, picciotto di Ciaculli, e Vincenzo Puccio che lo uccisero con alcuni colpi di pistola e fecero sparire il corpo.

Mario Prestifilippo (1958-1987)

Mario Prestifilippo
Mario Prestifilippo
Mario Prestifilippo

I morti eccellenti della sua carriera sono gli stessi del suo amico e zio Pino Greco, con l’aggiunta del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella e del medico legale Paolo Giaccone, oltre, naturalmente, a diversi mafiosi dei clan rivali. Anche lui, nonostante la giovane età, non era un semplice sicario, sia pure efficiente e infallibile, che eseguiva le condanne a morte emesse dalla cupola di Cosa Nostra. Era già un potente boss, tanto che Pietro Vernengo, Lorenzo Tinnirello e Carmelo Zanca, mafiosi di rango, al vertice delle famiglie di Brancaccio e Ciaculli, quando lo incontravano gli baciavano la mano in segno di rispetto. Prestifilippo, però, commise un errore imperdonabile: accusò Riina della scomparsa di Pino Greco. Di fatto firmò la sua condanna a morte. Il 29 di settembre del 1987, mentre nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo era in corso il maxi processo alla mafia, Prestifilippo stava raggiungendo il suo rifugio in sella al suo Vespone quando due auto lo costrinsero a fermarsi contro un muro sulla strada tra Bagheria e Baucina. Dieci killer armati di fucili a pompa ne fecero scempio piantandogli 84 proiettili in corpo. Il primo gli portò via alcune dita della mano destra, per impedirgli di usare la 38 special Smith & Wesson che teneva nei pantaloni, l’ultima tra il casco e il collo per il colpo di grazia. Aveva documenti falsi e prima di accertare l’identità passarono alcune ore. Questa è la fine di chi si mette contro Riina.

Filippo Marchese (1938-1982)

Filippo Marchese Milinciana
Filippo Marchese Milinciana
Filippo Marchese Milinciana

Capo della famiglia di Corso dei Mille, Marchese, chiamato “Milinciana” a causa del colorito del viso deturpato dall’acne giovanile, è stato un fedelissimo dei corleonesi. Anche lui, che di fatto gestiva la tragicamente famosa “camera della morte” di piazza Sant’Erasmo a Palermo, ha un pedigree criminale di assoluto spessore. Torturava le sue vittime per farle parlare, dopo averle legate a uno strumento simile alla garrota, quindi le strangolava e scioglieva i loro corpi in grandi bidoni di acido. L’uso smodato della cocaina che amplificava il suo carattere violento gli fece perdere piano piano il senso della misura e commettere crudeltà gratuite. Stava diventando pericoloso e Riina, che ormai la guerra per il trono di Cosa Nostra l’aveva già vinta, decise di sbarazzarsene. Diede l’ordine di eseguire la sentenza a Pino Greco, Giuseppe Giacomo Gambino, Salvatore Montalto. I tre uccisero “Milinciana” e fecero sparire il cadavere in un bidone di acido.

L'auto in cui vennero trucidati\u00A0Carlo Alberto Dalla Chiesa e Emanuela Setti Carraro (foto Ansa)
L'auto in cui vennero trucidati\u00A0Carlo Alberto Dalla Chiesa e Emanuela Setti Carraro (foto Ansa)
L'auto in cui vennero trucidati Carlo Alberto Dalla Chiesa e Emanuela Setti Carraro (foto Ansa)

Questa è la fine riservata a chi si metteva contro il “capo dei capi”, Totò “u curtu” o, più semplicemente, “la belva”. Che di nemici ne ha ammazzato personalmente a decine, prima di limitarsi ad affidare le consegne ad altri. In Cosa Nostra, del resto, si fa carriera con i morti, e Riina non è diventato boss per caso.

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