“Parla del sogno Martin, parla del sogno”. Mahalia Jackson, grande cantante gospel, aveva aperto il comizio dopo la Marcia per il lavoro e la libertà quel 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Washington e davanti a lei il reverendo Martin Luther King aveva appena iniziato a parlare. E all’improvviso il discorso già (in parte) preparato viene accantonato e nasce uno degli slogan politici più famosi della storia: I have a dream. “Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississipi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia”. Sono passati esattamente sessant’anni da quel proclama simbolo della lotta non violenta per i diritti degli afroamericani. E ne sono passati 15 da un altro slogan iconico quel Yes we can della campagna elettorale che porterà alla Casa Bianca Barack Obama, il primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti d’America. Tre parole, in un caso e nell’altro, semplici ed essenziali in grado di entrare nel cuore della gente e da qui direttamente nella storia. Parole da premi Nobel per la pace (Luther King nel 1964, il più giovane della storia, Obama nel 2009)

Il 28 agosto di quest’anno per il sessantesimo anniversario del celebre discorso di Martin Luther King, Joe Biden e la sua vice Kamala Harris hanno ricevuto nello studio ovale – come nel 1963 fece Kennedy col reverendo – i figli e gli organizzatori di quel raduno ricordando che “il sogno non è stato ancora realizzato”.

Il sogno di Luther King è parte di un complesso e articolato discorso, solo parzialmente preparato anche perché il reverendo e i suoi più stretti collaboratori erano molto impegnati con l’organizzazione logistica dell’imponente manifestazione che era stata promossa da King insieme ai leader delle principali organizzazioni per i diritti civili e mirava all’approvazione di una nuova legge per impedire qualsiasi forma di segregazione. C’erano 250 mila persone e molti testimonial celebri, tra questi Bob Dylan, Joan Baez, Marlon Brando. King fu l’ultimo a parlare, un discorso di 17 minuti che è stato minuziosamente analizzato dal punto di vista politico, linguistico e dell’arte oratoria. Tra i riferimenti quelli ad Abramo Lincoln che apre l’orazione (“Cent’anni fa un grande americano alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il proclama sull’emancipazione”) e a numerosi salmi e versetti biblici. Molte delle curiosità nascoste dietro il celebre discorso sono state raccontate nel libro “Behind the dream: the making of the speech that transformed a nation” di Clarence Benjamin Jones, consigliere ed amico intimo del reverendo. Il tema del sogno, tanto caro agli americani, era stato già toccato negli anni precedenti, è del 1960 l’intervento intitolato “The negro and the american dream”. Ma è al Lincoln memorial, in una parte del discorso a braccio, che nasce la forza retorica di I have a dream ripetuta per ben otto volte. “Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per ciò che la loro persona contiene. Io ho un sogno oggi”. E quell’oggi – detto davanti a 250.000 persone – assume una forza mai vista. 

Lo slogan di Obama

Barack Obama  (ANSA/AP Photo/Evan Vucci, Pool)
Barack Obama  (ANSA/AP Photo/Evan Vucci, Pool)
Barack Obama (ANSA/AP Photo/Evan Vucci, Pool)

Trentacinque anni dopo, nel 2008, altre tre parole entreranno nella storia e con quelle tre parole un fatto rivoluzionario: il primo presidente afroamericano alla guida degli Usa. Anche in questo caso Yes we can era stato già utilizzato, tanto che lo stesso Barack Obama aveva perplessità,  ma è nel discorso pronunciato l’otto gennaio 2008 con l’avvio della campagna elettorale per le primarie che diventa lo slogan ufficiale ripetuto più volte. “Era un credo scritto nei documenti di fondazione che dichiarava il destino di una nazione. Si possiamo. Fu sussurrato da schiavi e abolizionisti mentre aprivano una strada di libertà nelle notti più buie. Si possiamo. Fu cantata dagli immigrati mentre partivano da coste lontane e dai pionieri che si spingevano verso ovest contro un deserto spietato Si possiamo”.

Una campagna elettorale giocata anche sui social e con tutte le possibilità dei mezzi di comunicazione di massa. Lo slogan diventerà anche una canzone –alla quale hanno collaborato numerose celebrità – prodotta dal rapper will.i.am e un video su youtube che conta milioni di visualizzazioni. Obama sarà eletto presidente del 2009 e resterà in carica otto anni. E se i mezzi sono profondamente cambiati, il cuore del linguaggio politico è diretto. Nell’ultimo discorso yes we can sarà seguito da yes we did. Noi possiamo farlo, noi l’abbiamo fatto.

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