In parecchi sanno, ma in pochi ne parlano. E anche per l’opinione pubblica internazionale il fenomeno è misconosciuto. Eppure esiste, nascosto e tragico a un tempo. Un rapporto pubblicato nel febbraio scorso da Amnesty International ha confermato che nei Territori arabi occupati le autorità israeliane non si limitano alla repressione del dissenso o alla spoliazione dei beni a favore dei coloni. C’è di più, molto di più. “La nuova ricerca – si legge sul sito dell’associazione – dimostra che Israele impone un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano le e gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’apartheid ed è proibito dal diritto internazionale”. Coniato relativamente all’oppressione della popolazione di colore in Sudafrica da parte dei bianchi, il termine ora definisce ogni forma di segregazione praticata sul Pianeta.

“Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity (L’apartheid israeliana contro i palestinesi, sistema crudele di dominazione e crimine contro l’umanità)”: questo il titolo del rapporto con il quale Amnesty, in 280 pagine, ripercorre le vicende del conflitto israelo-palestinese e dimostra che l’amministrazione di Tel Aviv ha messo in atto un sistema di vera e propria segregazione a danno del popolo palestinese. “A maggio 2021 – racconta amnesty.it – le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, un quartiere della parte di Gerusalemme est occupata, iniziarono a protestare contro il piano israeliano di sgomberarli con la forza dalle loro abitazioni per fare spazio ai coloni ebrei. Molte delle famiglie sono rifugiate, da quando si sono stabilite a Sheikh Jarrah dopo essere state sgomberate con la forza all’epoca della costituzione dello stato di Israele nel 1948. Da quando Israele occupò Gerusalemme est e il resto della Cisgiordania nel 1967, le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono state continuamente prese di mira dalle autorità israeliane che usano leggi discriminatorie per espropriare sistematicamente le persone palestinesi della loro terra e delle loro abitazioni a beneficio delle persone ebree israeliane”.  

Donne palestinesi (foto Amnesty International)
Donne palestinesi (foto Amnesty International)
Donne palestinesi (foto Amnesty International)

La rivolta di Gerusalemme est si estese presto e la gente scese in piazza suscitando l’ira funesta del regime dell’allora primo ministro Benjamin Netanyahu, ultraconservatore del Likud. L’amministrazione di Tel Aviv reagì con un uso eccessivo della forza, che sfociò in rappresaglie, arresti e detenzioni. Sul campo migliaia di feriti.

Per Amnesty international – che alla pari di altre Ong si è tirata addosso perfino l’accusa, ovviamente infondata, di antisemitismo – i fatti accaduti allora danno la misura dell’oppressione che i palestinesi affrontano quotidianamente, da decenni. “La discriminazione, lo spossessamento, la repressione del dissenso, le uccisioni e le ferite: tutto – osserva amnesty.it - fa parte di un sistema che è disegnato per privilegiare le e gli ebrei israeliani alle spese delle e dei palestinesi”. L’apartheid, sostiene l’organizzazione che lotta contro la violazione e per la difesa dei diritti umani nel mondo, è stata scientificamente praticata da Israele. “Leggi, politiche e pratiche volte a mantenere un sistema crudele di controllo sulle e sui palestinesi, li hanno frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti in un costante stato di paura e insicurezza”. Le discriminazioni sono evidenti non soltanto nei confronti dei palestinesi ma – osserva Amnesty – anche a danno degli arabo-israeliani, che si sono visti negare, ad esempio, licenze edilizie.

Michele Piras, di Borore, ex deputato progressista e ora esponente del Pd nuorese, membro dell’esecutivo internazionale della Lega dei parlamentari per Gerusalemme, ha visto con i propri occhi molti dei duemila morti causati dalle bombe sganciate da Israele sulla Striscia di Gaza nel 2013.

L'ex deputato Michele Piras (archivio L'Unione Sarda)
L'ex deputato Michele Piras (archivio L'Unione Sarda)
L'ex deputato Michele Piras (archivio L'Unione Sarda)

“Sì - dice l’ex parlamentare - in Israele vige l’apartheid: esistono muri che percorrono l’intera Palestina, che dividono palestinesi da palestinesi e non solo palestinesi da israeliani, regimi diversificati di riconoscimento ed esigibilità dei diritti di cittadinanza. È noto che ci sono palestinesi che non possono entrare a Gerusalemme”. Piras attualizza il discorso: “Oggi – dice - nel momento in cui giustamente condanniamo l’invasione russa e la vessazione ai danni del popolo ucraino, dovremmo fare altrettanto guardando a ciò che da settant’anni a questa parte accade sulla Striscia di Gaza, a Hebron o in Cisgiordania”.

Fawzi Ismail, medico radiologo che lavora a Cagliari, presidente dell’associazione Sardegna-Palestina (ottanta iscritti, centinaia di sostenitori in tutta l’Isola), è tutt’altro che meravigliato dal rapporto di Amnesty International. “Il tema è all’ordine del giorno non da oggi – osserva – ma da decenni. L’apartheid nei confronti del nostro popolo è stata denunciata in passato da diverse organizzazioni umanitarie, in molteplici forme di discriminazione razziale e religiosa. Cito la legge promulgata nel 2018 per sancire l’ebraicità dello Stato israeliano. Un modo per escludere chi non è ebreo. Da decenni i coloni israeliani hanno diritto alla libera circolazione e i palestinesi no. In questi giorni a Gerusalemme est accade che i cittadini palestinesi non siano considerati né israeliani né cittadini dei territori occupati. Sono semplicemente emarginati, diversi. Assistiamo a pratiche molto evidenti di pulizia etnica”.

Fawzi Ismail, medico radiologo, presidente dell'associazione Sardegna-Palestina (foto concessa)
Fawzi Ismail, medico radiologo, presidente dell'associazione Sardegna-Palestina (foto concessa)
Fawzi Ismail, medico radiologo, presidente dell'associazione Sardegna-Palestina (foto concessa)

Oggi come ieri. “Negli ultimi 14 anni”, ricorda amnesty.it, “più di 2 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza hanno vissuto sotto il blocco illegale di Israele. Insieme a quattro grandi offensive militari, il blocco ha avuto conseguenze catastrofiche. Il blocco è una forma di punizione collettiva. Costringe la popolazione di Gaza – la maggior parte della quale è composta da rifugiati o da loro discendenti fuggiti nel 1948 – a vivere in condizioni sempre più disastrose. Ci sono gravi carenze di alloggi, acqua potabile, elettricità, medicine essenziali e cure mediche, cibo, attrezzature educative e materiali da costruzione. Nel 2020, Gaza aveva il tasso di disoccupazione più alto del mondo, e più della metà della sua popolazione viveva sotto la soglia di povertà”.

Michael Lynk, canadese, professore associato presso l'Università dell'Ontario occidentale è stato incaricato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di seguire e riferire sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati e il rapporto che l’accademico nel marzo scorso ha consegnato all’Onu è agghiacciante. Così come lo sono stati altri studi, effettuati da organizzazioni umanitarie internazionali prima di Amnesty, il cui ultimo rapporto sarà presentato all’Università di Cagliari il 20 maggio. Relatore Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

Elisabetta Secchi, responsabile della circoscrizione sarda di Amnesty International (foto concessa)
Elisabetta Secchi, responsabile della circoscrizione sarda di Amnesty International (foto concessa)
Elisabetta Secchi, responsabile della circoscrizione sarda di Amnesty International (foto concessa)

Elisabetta Secchi, responsabile della circoscrizione Sardegna, attivista da 12 anni, osserva un’Isola “sensibile al tema delle violazioni dei diritti umani, ma ora meno di prima. Troppi nazionalismi sono di ostacolo a una presa di coscienza e il barometro dell’odio con cui seicento attivisti monitorano i profili social – Facebook e Twitter – dei politici italiani ha registrato un’impennata”. Quanto al tema dell’apartheid di Israele nei confronti dei palestinesi, la responsabile sarda della Ong è categorica: “Il sostegno occidentale a Israele su questo fronte non è accettabile. Il rapporto di Amnesty certifica una discriminazione istituzionalizzata e sistematica, che passa attraverso leggi precise”. L’organizzazione fin dal 2018, anno dei massacri dei palestinesi a Gaza, propone l’embargo sulle armi a Israele. E oggi lo ribadisce, senza tentennamenti: niente più bocche da fuoco a chi pratica l’apartheid.

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