Diciannove milioni (abbondanti) di no. Così cinquant’anni fa – il 12 e 13 maggio del 1974 – le italiane e gli italiani difesero il diritto al divorzio nel primo referendum abrogativo della storia repubblicana con un tasso di partecipazione, quasi l’88 per cento, oggi inimmaginabile. Un risultato che, con l’infuocata campagna elettorale che ha preceduto il voto, è uno spartiacque della storia italiana, anticipo – sul fronte dei diritti - di quello che accadde sette anni dopo con l’aborto. C’è un prima e un dopo referendum a sancire i profondi cambiamenti in atto nel Paese.

La legge che il comitato presieduto dal giurista Gabrio Lombardi (e che vedeva in prima linea anche il sardo Salvatore Satta) voleva abrogare è la n.898 del 1 dicembre 1970, nota come la legge Fortuna-Baslini dai nomi dei primi firmatari, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini approvata in un clima di forte contrapposizione, soprattutto da parte degli ambienti cattolici, e sostenuta dalle forze laiche e liberali.

Battaglia nelle piazze

In prima linea sul fronte politico antidivorzista ci sono la Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani e il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante. E naturalmente la Chiesa. In difesa, un ampio schieramento che va dai liberali all’estrema sinistra che però comprende anche molti cattolici, convinti sostenitori della laicità dello Stato. La battaglia si combatte nelle piazze, dove scendono in masse le donne, nelle chiese dove i vertici ecclesiastici fanno sentire forte la loro voce, nelle tribune elettorali, con manifesti spesso dominati dagli occhi dei bambini. Al piccolo che chiede “mamma cosa vuol dire divorzio?”, fa da contraltare il manifesto del No “Tireranno fuori la foto di tuo figlio per farti votare come vuole Almirante”. E anche Linus mette in copertina un gigantesco no, un’iconografia del tempo ricostruita nel libro appena uscito “Storia e immagini del referendum che cambiò l’Italia” di Edoardo Novelli e Gianandrea Turi.

I risultati in Sardegna

Si recano alle urne oltre 33 milioni di elettori, il 59,62 per cento vota no all’abrogazione, il 40,74 per cento sì. Il fronte pro divorzio vince anche in Sardegna in controtendenza rispetto all’Italia meridionale con la sola eccezione della provincia di Nuoro (tranne il capoluogo).

L’Unione Sarda del 14 maggio titola a tutta pagina “L’Italia ha detto no”. Il fronte divorzista vince nei tre capoluoghi, a Oristano (non ancora provincia), Carbonia, Iglesias, Quartu, Macomer, Alghero, Tempio, Olbia, Villacidro, La Maddalena, Porto Torres, Bosa, Tortolì con picchi altissimi nel Sulcis operaio. “Nutriti consensi – si legge nella cronaca – in quasi tutti i centri medi in fase di sviluppo, sia per la presenza di industrie, attività agricole moderne o ad elevata vocazione turistica”.

Nel commento del direttore Fabio Maria Crivelli “Un Paese che cresce” si mette in evidenza la portata del voto. “Ci pare essenziale segnalarne l’esito come il felice superamento di una difficile prova dalla quale il Paese esce, noi crediamo, con un respiro di sollievo. Ha ragione Loris Fortuna, uno dei promotori della legge che il popolo ha approvato, quando afferma che è stata una vittoria dell’Italia giovane, laica, europea”.

La sconfitta antidivorzista segna la discesa di Fanfani che, dopo la sconfitta della Dc nelle successive elezioni regionali del 1975, lascia l’incarico di segretario a Benigno Zaccagnini. Anche le regionali sarde registrano lo stesso trend, la Dc perde più del 6 per cento e 4 consiglieri mentre il Pci guadagna sei seggi con il sette per cento in più.

Al momento della vittoria del no al referendum, in Italia vige ancora la potestà maritale: “il marito è il capo della famiglia, – diceva la legge – la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”. Nel 1975 sarà spazzata via dal nuovo diritto di famiglia. Il vento era davvero cambiato.

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