Venti giorni prima, esattamente il 29 settembre 1984, il cosiddetto “blitz di San Michele” aveva scombussolato l’organizzazione denominata “Cosa nostra”: 366 ordini di arresto eseguiti in tutta Italia da alcune migliaia di carabinieri e agenti di polizia. Era la devastante conseguenza delle dichiarazioni di Tomaso Buscetta al giudice istruttore Giovanni Falcone. Un’operazione che segnò la storia della lotta dello Stato contro la più potente delle mafie presenti sul territorio nazionale.

Ma i boss e i picciotti siciliani, abituati a non preoccuparsi troppo delle loro vicende giudiziarie – in un modo o nell’altro riuscivano comunque a farla franca – continuarono a fare quello che avevano sempre fatto, cioè affari e omicidi. E per far sapere che loro non avrebbero arretrato di un millimetro bastava un pretesto, un’occasione. Per i mafiosi trovarla o crearla non faceva differenza. Capitò anche, strano ma vero, che due commercianti di carne equina e un mediatore a loro legato acquistassero sedici cavalli da un allevamento pugliese e non dal solito fornitore catanese, il quale se le prese a male. Andò a lamentarsi con Nitto Santapaola, che dettava legge e comandava il suo clan alle pendici dell’Etna, chiedendogli di fare qualcosa. Naturalmente, non si trattava di una richiesta di mediazione, ovvero di un tentativo di recuperare il cliente. No, a uno sgarro - perché di sgarro si stava parlando – bisognava rispondere nella maniera più adeguata: quell’affronto avrebbe dovuto essere punito con la morte.

Fu così che la sera del 18 ottobre 1984, un commando composto da Mario Prestifilippo, Sinibaldo Figlia, Pietro Senapa e Salvatore Di Salvo, armati di tutto punto, fece irruzione nel Cortile Macello, in piazza Scaffa, quartiere Brancaccio di Palermo. Al suo interno, i fratelli Cosimo e Francesco Quattrocchi, il loro cugino Cosimo Quattrocchi, il cognato Marcello Angelini, e poi Salvatore Schimmenti, Paolo Canale, Giovanni Catalanotti, Antonio Federico, questi ultimi quattro si trovavano lì per caso e stavano dando una mano agli altri a sistemare gli animali appena fatti scendere dai box dopo averli prelevati alla stazione. Una scena ordinaria che si trasforma in un’apocalisse nel giro di pochi istanti. Gli otto uomini, disarmati, sono costretti a mettersi faccia al muro. Prestifilippo, uno dei sicari più feroci della mafia, è il primo ad aprire il fuoco, gli altri lo seguono in un baleno. I Quattrocchi e gli altri muoiono in un attimo sotto i colpi delle pistole. Ma non basta, l’ultimo dettaglio è lo sfregio, l’insulto al cadavere: a quasi tutti viene devastato il volto con la lupara. Tant’è che nelle bare i corpi ricomposti avranno la testa fasciata. Una crudeltà gratuita che, talvolta, a Cosa nostra serve per ribadire le gerarchie e ricordare chi comanda.

Pietra Lo Verso, moglie di Cosimo Quattrocchi, esaurite le lacrime, le maledizioni e la rabbia, era andata dritta a denunciare Fisichella come mandante della strage. Ma il catanese e gli altri finiti a processo, compreso Santapaola, e i boss palermitani Pietro Vernengo e Carmelo Zanca, vennero assolti. Giudici e investigatori non riuscirono a provare le accuse e la storia si concluse senza colpevoli.

Anni più tardi, però, grazie alla collaborazione di Sinibaldo Figlia, un componente del gruppo di fuoco di piazza Scaffa, il caso si riapre. I catanesi hanno avuto un ruolo, racconta il killer pentito, ma senza il benestare di Totò Riina, il capo dei capi, l’avvallo di Vernengo e Zanca, la mattanza non si avrebbe mai potuto compiersi. Per Totò ‘u curtu, tra l’altro, si presentava l’opportunità di “tragediare” e puntare l’indice su Pino Greco “Scarpuzzedda”, reo di non controllare il territorio di sua competenza. Greco, infatti, rimase sorpreso nell’apprendere dei fatti di piazza Scaffa e nella sua posizione non se lo poteva permettere, sarebbe stato un segnale di debolezza. Giusto ciò che cercava Riina. Delegittimato Greco – poi fatto sparire da altri sicari di Cosa nostra –, quegli otto morti erano anche loro un pretesto, una giustificazione. Per il crudele capo corleonese, invece, si trattava di un piccolo incidente di percorso, di un effetto collaterale come tanti, da liquidare con una semplice alzata di spalle. D’altronde, erano appena otto morti in una regione che, negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso, di morti ammazzati ne ha contato mille solo a Palermo città.

In sintesi, due ipotesi investigative, con la seconda privilegiata rispetto all’altra, che non cambiano la sostanza delle cose. Ai tempi dell’impero mafioso corleonese la vita di un uomo valeva davvero poco. 

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