A Cagliari la situazione era tale che il sindaco Mario Palomba ordinò la chiusura anticipata delle scuole, asili per l’infanzia ed elementari. Così il 19 maggio 1959 il provveditore agli studi firmò la circolare, nella speranza - questo era l’intendimento delle autorità - che le famiglie più diffidenti si decidessero finalmente a far vaccinare i loro bambini.

In un tempo neanche troppo lontano, l’infanzia di chi oggi ha più di cinquant’anni, l’agente patogeno che faceva più paura era il virus della poliomielite, la terribile malattia infettiva che colpiva soprattutto i bambini riducendoli alla paralisi e, nei casi più gravi, all’impossibilità di respirare. Nei ricordi di ciascuno di noi c’è l’immagine di coetanei finiti sulla sedia a rotelle, con i tutori alle gambe o le stampelle. E di bambini ricoverati dentro i polmoni d’acciaio, giganteschi macchinari che hanno preceduto i moderni ventilatori delle terapie intensive.

Nell’estate del 1958 furono 8.300 i casi di poliomielite registrati in Italia, con centinaia di bambini colpiti nelle forme più gravi. In Sardegna, dichiarò in un’intervista all’Unione Sarda il dottor Aldo Duce, medico provinciale di Cagliari, «la media annuale oscilla attorno ai 130-150 casi, non compresi quelli che possono sfuggire perché scarsamente sintomatici». La curva di quella media annuale, però, nella primavera del 1959 si era impennata drammaticamente a causa di una catena di contagi nel capoluogo dell’Isola e in tutta la provincia che allora comprendeva anche il Sulcis e parte dell’Oristanese. Tra Cagliari e provincia, nei primi cinque mesi dell’anno furono denunciati ben 133 casi (per la maggior parte, 85%, bambini dai 3 mesi ai 6 anni), 108 dei quali tra aprile e i primi giorni di maggio.

Erano dati allarmanti, tanto che dopo una concitata riunione in Regione, l’assessore alla sanità Salvatore Cara dispose l’aumento immediato del numero dei posti letto. In pochi giorni, tra il Centro poliomielitici (annesso alla Clinica pediatrica) e l’ospedale Santissima Trinità, si arrivò a 250 posti letto a disposizione dei piccoli pazienti. «Ma per una efficace lotta all’epidemia - avvisò con una nota l’assessore alla sanità -, la popolazione sarda deve strettamente collaborare con l’autorità sanitaria sottoponendo i bambini alla vaccinazione».

A Cagliari i bambini colpiti erano 51, e 18 nelle frazioni di Pirri, Monserrato e Quartucciu. Gli altri 64 casi erano sparsi in 34 comuni della provincia: 5 a Quartu, 7 ciascuno a Carbonia e Serramanna, tre ciascuno a Uta, San Gavino e Samassi; due ciascuno a Teulada, Muravera, Portoscuso, Solarussa, Villasor, Iglesias, Decimoputzu, Gonnosfanadiga; altri 20 nel resto del territorio.

Appello ai genitori per combattere la polio. Era questo il titolo dell’intervista al medico provinciale pubblicata in prima pagina l’8 maggio 1959, dieci giorni prima che si rendesse necessaria la chiusura delle scuole come misura di contenimento dell’epidemia. Un appello che aveva i toni dell’estremo tentativo di convincere le famiglie a immunizzare i propri bambini, ancor più perché si avvicinava la stagione calda (il poliovirus amava il caldo). «Contrariamente a quanto avvenuto negli altri comuni della provincia - spiegava il dottor Aldo Duce -, nella città di Cagliari e nelle frazioni non c’è stata la corsa alle vaccinazioni».

Cagliari era dunque una città di genitori no vax (mamme in special modo). La campagna fatta in maniera capillare dalla città al più piccolo dei paesi anche con l’aiuto dei medici condotti, non aveva sortito grandi risultati nel capoluogo. Il vaccino antipolio, gratuito, era stato raccomandato per tutti i bambini, «indigenti o meno», dai 3 mesi ai 6 anni. Ma, se dal Nuorese in su la risposta delle famiglie c’era, nella più grande città della Sardegna v’era invece diffidenza, paura. «Pregiudizi difficilmente scalfibili», diceva il sindaco allargando le braccia.

Nonostante le rassicuranti notizie che arrivavano dagli Stati Uniti e dalla Russia sul successo del vaccino, era ancora forte l’eco di uno dei più grandi disastri farmacologici degli Usa dove, nel 1955, a causa di un errore di produzione di una delle industrie fornitrici che aveva immesso sul mercato 120 dosi con poliovirus vivi, cinque bambini erano morti e altri cinquanta restarono paralizzati. Ovviamente i protocolli di produzione del vaccino furono rivisti in maniera ancora più severa e da allora negli Stati Uniti venivano immunizzati ogni anno milioni di bambini, ma le ragioni per considerare il farmaco sicuro e affidabile non bastavano a scalfire il pregiudizio delle famiglie, l’ostinazione delle mamme irriducibili.

C’erano centri vaccinali in ogni comune, nelle sedi periferiche dell’Omni (l’Opera nazionale maternità), negli uffici di Igiene; e intanto - poiché il contagio avviene attraverso le feci (con l’ingestione di acqua o cibi contaminati) o la saliva (le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da persone malate o da portatori sani) - venivano ricordate le più elementari regole igieniche.

A questo punto è necessario riavvolgere il nastro del tempo e ricordare com’era, al tempo, la Sardegna. A beneficio dei nostri più giovani lettori va detto che negli anni Cinquanta la maggior parte dei comuni non disponeva di impianti fognari e acquedotti adeguati. L’acqua potabile (anche un rubinetto all’esterno) c’era solo in tre abitazioni su cento, ancora più rari i servizi igienici. Nei paesi c’erano nugoli di mosche, galline che razzolavano in strada, stalle per il maiale e la capra. Nei quartieri popolari delle città la situazione non era poi tanto diversa, anzi aggravata dalle condizioni di vita delle famiglie numerose dentro abitazioni piccole e malsane.

In questo quadro di miseria e sporcizia generale, stonano non poco le raccomandazioni d’igiene che, tuttavia, erano necessarie. «È indispensabile che i genitori evitino di portare o di consentire che i loro piccoli, quelli sotto i quattro anni, vadano in ambienti o località dove ci sono assembramenti di persone - era l’avviso dato dal dottor Duce dalle colonne dell’Unione Sarda -. Essendo poi l’apparato digerente una delle principali porte d’ingresso del virus, è necessario che non venga trascurato un altro valido mezzo di lotta alla malattia che è costituito dall’estrema cura che si deve porre nell’alimentazione e nella pulizia dei bambini, evitando in modo particolare di somministrare loro acqua la cui potabilità non sia più che certa, latte insufficientemente bollito, verdura cruda e frutta mal lavata». Regole che evidentemente potevano essere rispettate solo dalle famiglie agiate.

La poliomielite è stata in tutto il mondo uno degli incubi del Novecento, eppure si è riusciti a debellarla e oggi vengono segnalati casi solo in Pakistan, Afghanistan e in alcuni stati dell’Africa. Un incubo che si cominciò ad arginare grazie a una colossale campagna di vaccinazione di massa (prima col farmaco Salk, poi col Sabin e di nuovo Salk, sviluppati negli Stati Uniti nei primi anni ’50), che tuttavia in Italia registrava una scarsa adesione soprattutto al Sud. Basti dire che in questa parte del Paese l’incidenza di infezioni poliomielitiche era di ben tre volte superiore rispetto al Nord, ed è per questo che nel 1966 il vaccino antipolio è diventato obbligatorio.

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