In quel tempo faceva freddo anche in Florida. Il 28 gennaio 1986, i termometri del Kennedy Space Center (350 chilometri a nord di Miami) segnavano 36 gradi Fahrenheit, pari a circa due gradi Celsius, quando partì il conto alla rovescia per il lancio dello Shuttle. Erano le 11 e 38, la missione era stata rinviata già tante volte: fissata inizialmente a luglio, poi a novembre, era stata riprogrammata per il 22 gennaio, e di giorno in giorno aveva subito ulteriori slittamenti per svariate ragioni. Forse sarebbero bastati pochi gradi in più per evitare il sacrificio di sette vite nel disastro più celebre della storia delle conquiste spaziali (l’evento analogo del 2003, con altrettante vittime, per molti motivi ha colpito di meno l’opinione pubblica).

Per stabilire che il freddo ebbe un ruolo decisivo nella tragedia fu necessaria, nei mesi successivi, una lunga indagine con l’intervento di un genio come Richard Feynman, insignito 21 anni prima del premio Nobel per la fisica. Eppure, alcune conversazioni della sera precedente al lancio mostrano che, in realtà, il rischio era stato segnalato.

Convinzioni errate

L’idea che quel terribile evento sia stata una fatalità imprevedibile è insomma una narrazione di comodo, non aderente alla realtà. Ed è solo una delle convinzioni diffuse, ma fallaci, sul disastro del 1986: tra le altre, quella che il Challenger – nome della seconda navetta del programma Space Shuttle: la prima, in servizio dal 1981, era stata la Columbia – sia esploso, uccidendo sul colpo i sette astronauti a bordo. In realtà, lo Shuttle fu di fatto avvolto da un incendio e venne disintegrato, ma la cabina con l’equipaggio resistette alcuni minuti, fino all’impatto violentissimo con l’oceano.

Nessuno sa davvero come siano morti il comandante Dick Scobee e gli altri sei, tra cui Christa McAuliffe, l’insegnante che aveva prevalso su altri 11mila colleghi nella selezione per diventare la prima prof nello spazio. Il rapporto Kerwin sulla sorte delle persone coinvolte ipotizza che la morte sia arrivata proprio al momento dello schianto con l’acqua, a oltre 330 chilometri orari.

SPACE SHUTTLE CHALLENGER CREW, AMERICAN ASTRONAUTS, UNIFORM, HELMETS POSED KILLED, FIRST FEMALE CHALLENGER DISASTER
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L'equipaggio del Challenger che trovò la morte nell'incidente

La caduta della cabina durò più di due minuti; è possibile, ma non certo, che gli occupanti non fossero più coscienti per effetto dello “strappo” violento dal resto della navetta, avvenuto con una forza pari da 12 a 20 volte quella di gravità. Tuttavia risultò che erano state attivate tre delle sette riserve di ossigeno d’emergenza dei caschi.

Un anello di gomma

Il problema del Challenger fu individuato in una guarnizione che non reggeva più, quasi come in una caffettiera di casa. Si chiamava O-Ring e si trovava su uno dei due razzi propulsori che davano al Challenger la spinta iniziale verso l’alto. L’analisi dei filmati del lancio ha mostrato che dal razzo di destra, già sei decimi di secondo dopo la partenza, fuoriusciva del fumo, segno di una perdita di propellente. In condizioni normali, la guarnizione avrebbe dovuto allargarsi e bloccare il passaggio del gas; ma le basse temperature la resero meno elastica. L’ossido d’alluminio prodotto dalla combustione tappò temporaneamente la perdita, ma salendo in quota i venti e le forze aerodinamiche annullarono anche questo effetto. Dal razzo iniziò a uscire una vera e propria fiamma, che poi si estese al grande serbatoio centrale e alla fine avvolse tutto il mezzo. L’immagine che da terra (e per chi guardava alla tv) apparve appunto come un’esplosione si verificò 72 secondi dopo il lancio, quando il Challenger si trovava a circa 14mila metri di altezza. L’ultima comunicazione registrata a bordo dello Shuttle fu un’esclamazione di sorpresa (“Uh-oh!”) attribuita al pilota Mike Smith, che doveva aver rilevato dagli strumenti l’improvvisa perdita di pressione del serbatoio. Meno di un secondo dopo saltò tutto in aria.

Richard Feynman durante l'esperimento in tv sulla guarnizione dello Shuttle
Richard Feynman durante l'esperimento in tv sulla guarnizione dello Shuttle
Richard Feynman durante l'esperimento in tv sulla guarnizione dello Shuttle

Fu lo stesso presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan a volere una commissione speciale per indagare le cause del disastro, presieduta dall’ex segretario di Stato William P. Rogers. Ne facevano parte anche Neil Armstrong, il primo uomo sulla luna, e Sally Ride, la prima donna americana nello spazio. Ma fu decisivo l’apporto del premio Nobel Feynman, che vestendo quasi i panni di un “tenente Colombo” della fisica svolse una propria indagine interrogando vari responsabili del progetto, e poi durante un esperimento trasmesso in tv illustrò molto bene al grande pubblico cosa fosse accaduto: strinse con una morsa un pezzo della gomma di cui erano fatti gli O-Ring e lo immerse in un bicchiere di acqua a zero gradi, per poi ritirarlo fuori e constatare che il materiale non aveva recuperato la sua conformazione precedente. Dimostrò così che il freddo aveva impedito agli anelli di allargarsi per bloccare il passaggio del gas infiammato.

Fino al 28 gennaio 1986, in effetti, nessuno Shuttle era stato mai lanciato con temperature esterne inferiori ai 12 gradi Celsius. Proprio di questo avevano discusso, la sera prima del lancio, in una lunga telefonata, gli ingegneri della Morton Thiokol (la società produttrice dei razzi propulsori) e i responsabili Nasa del progetto. Ma pare che, alle perplessità dei primi, dalla Nasa qualcuno rispose che non potevano sognarsi di aspettare aprile per avere temperature più miti. Alla fine, anche la Morton Thiokol diede l’ok alla missione. Nonostante le pesanti critiche rivolte dalla Commissione Rogers sia alla società fornitrice che alla Nasa, nessuno fu condannato penalmente per la morte dei sette astronauti. La Nasa promosse un nuovo programma per la sicurezza dei suoi voli: ma l’incidente altrettanto grave del primo febbraio 2003, quando lo Space Shuttle Columbia si disintegrò durante il rientro sulla terra, ha dimostrato che lo sforzo non era sufficiente.

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