«I giornalisti sono il sale della democrazia, ma il potere usa le querele per fermarli»
“E io ti querelo”: l’avvocata Caterina Malavenda racconta «una storia della libertà di espressione in dieci processi»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«Per gli anglosassoni il giornalista è il cane da guardia del potere, deve denunciare gli abusi e gli errori di chi lo detiene, addentandolo ai polpacci e mantenendo la presa, fino a quando l’opinione pubblica non sia stata adeguatamente informata, nella speranza che le cose cambino. Certo ci sono dei rischi, quindi sarebbe più facile chiudere gli occhi, girare il capo dall’altra parte. Chissà se c’è chi l’ha fatto. Qualcuno, scherzando ma non troppo, si chiede se il giornalista non stia diventando piuttosto un barboncino da salotto. Se è facile fare ironia spicciola, lo è meno rischiare di persona; e sono tanti quelli che, rimasti pitbull, non mollano».
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Caterina Malavenda è spesso l’ultimo ostacolo che separa i giornalisti da una condanna per diffamazione. Settant’anni, avvocata cassazionista e giornalista pubblicista, frequenta i palazzi di giustizia dal 1985. Sul campo si è conquistata la stima della categoria che difende, pur avendo ben presenti i difetti dei cronisti considera il loro lavoro il sale della democrazia: «Sono un incomodo, nessuno li ama. Però quando fanno le inchieste serie, documentate, l’opinione pubblica li segue, con il loro lavoro possono influenzare il corso della storia». Ha raccolto in un libro dieci processi vissuti in prima persona – al fianco di Oriana Fallaci e Michele Santoro, Fiorenza Sarzanini, Fabrizio Gatti e tanti altri - sotto il titolo “E io ti querelo”, edito da Marsilio, un manuale indispensabile a chi fa questo mestiere e a chi vuol capire nel concreto cos’è e quanto è a rischio la libertà di stampa: «Il tasso di democrazia di un Paese è direttamente collegato alla libertà di espressione».
Cos’è cambiato negli ultimi trent’anni?
«Prima di Tangentopoli c’erano regole condivise: l’informazione si occupava dei politici con cautela e loro tolleravano questo interesse perché fondamentalmente non avevano altra scelta. L’opinione pubblica poi non era prevenuta e di massima pensava che, fino alla condanna, gli indagati fossero innocenti. A causa di quella inchiesta e delle modalità con cui è stata condotta, con arresti e confessioni a raffica, quella convinzione si capovolge: da allora si tende a considerare colpevole anche chi ha ricevuto solo un avviso di garanzia. Tangentopoli di fatto finisce con quello a Silvio Berlusconi e, a poco a poco, imprenditori, potenti e politici si riprendono e, oltre alla magistratura, mettono nel mirino anche i giornalisti. E da allora querele e richieste di risarcimento, utilizzate senza parsimonia, non di rado infondate, portano i malcapitati davanti al Tribunale civile o penale con il rischio, in caso di condanna, di vedersi portare via tutto ciò che hanno».
Il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti si vantava di non aver mai querelato un giornalista. Invece dal 1994 in poi - da Berlusconi sino a Giorgia Meloni passando per Renzi e D’Alema - quasi tutti hanno portato in Tribunale un cronista. Perché?
«La stampa dà molto fastidio, per cui sia da destra che da sinistra e dal centro si tenta da sempre di metterla a tacere con i processi. Il salto di qualità ritengo ci sia stato quando la politica ha capito che è più semplice agire a monte, cambiando la legge. Così sono state di fatto eliminate le conferenze stampa, si è ridotta la possibilità di pubblicare atti giudiziari, si tende a conculcare la critica, vietando di affrontare alcuni argomenti e pian piano si riduce il raggio d’azione dell’informazione».
Perché il Parlamento non trova un accordo sulle querele temerarie che servono a tappare la bocca ai giornalisti col rischio di risarcimenti altissimi?
«Ma mica fanno una legge contro se stessi. È come se i tacchini tifassero per il Natale nonostante il loro ruolo nel menù del cenone. No, durante le feste diventano tutti buddisti».
Le colpe degli editori?
«Il peccato originale è che non esistono quasi più editori puri, tutti gli altri hanno interessi economici o politici diversi, che rendono difficile per i loro giornalisti occuparsene liberamente. Il secondo problema è che oggi un’azienda giornalistica rende assai poco, quindi chi la gestisce lo fa per ragioni diverse dal guadagno. Il terzo e non ultimo problema è che, quando lo fanno e non lo fanno tutti, affrontano un sacco di spese per difendere i giornalisti e risarcire i danni, i rischi di dover sborsare denaro sono alti».
Le responsabilità dei giornalisti?
«Prima erano cronisti di razza, anche con qualche eccesso certo che, però, non sviliva l’importanza del ruolo. Oggi tanti si barcamenano tra apatia, stipendi bassi e nuove realtà: quella dei social, per esempio, su cui seguono i supposti gusti del pubblico. Prendiamo Garlasco: perché in tivù se ne parla ovunque a ogni ora del giorno e della notte? Fa audience e non importa se si fa a pezzi la vita di persone in carne e ossa, senza reali dati di fatto. Per un clic parlano sempre più spesso di cose prive di importanza, commettono un sacco di errori, nei quali perseverano, senza alcuna cura per la verità e questo rende chi interpreta così la professione, come fosse un influencer, insopportabile, inutile e dannoso per tutti gli altri».
