Monica Taula è un tornado, che travolge con la sua positività e con il suo dinamismo qualunque persona attraversi la sua (bella) storia di vita che l’ha portata oggi a diventare presidente nazionale dell’Anpvi, l’associazione privi della vista e ipovedenti.

In Sardegna le persone con disabilità visiva sono circa 3.112 (ciechi totali e parziali, dati Inps 2021) su un totale di 108.856 a livello nazionale. “Nella nostra regione, facendo le dovute proporzioni, sono numeri importanti – spiega a L’Unione Sarda Monica, nata Dusseldorf in Germania 57 anni fa da genitori emigrati da Loceri – perché abbiamo molte patologie che portano alla cecità, come le forme di miopia genetica, il glaucoma, la retinite pigmentosa o il diabete. E poi ci sono tanti bambini che nascono prematuri, e l’occhio è uno degli elementi che si formano più avanti nella gravidanza”.

Lei quando ha perso la vista?

“Fino alla seconda media non avevo particolari problemi, solo una forte miopia che comunque non mi aveva precluso alcuna attività. In terza si è verificato il distacco della retina, entrambi gli occhi”.

Un momento difficile.

“Certamente perché, non giriamoci intorno, da un giorno all’altro non ho più visto niente, ho dovuto riformulare tutto il mio sistema di vita, le mie esperienze, riprendere la scuola che avevo interrotto. E in questo mia madre è stata molto lungimirante: per quanto sia stata dura per lei, mi ha lasciato andare a Cagliari, all’istituto dei ciechi, che era anche una scuola”.

Ha proseguito lì gli studi?

“E non solo quelli: ho imparato il braille, mi sono avvicinata al problema della cecità, perché prima era tutto un sentito dire. In famiglia, per capire, gli ostacoli ti venivano tolti, c’erano altri che li incrociavano per te e li eliminavano. Invece nella nuova realtà ho capito intanto che non esistevo solo io, ma che c’erano tanti altri ragazzi non vedenti, molti avevano superato benissimo tutto e facevano cose che credevo impensabili”.

Tipo?

“Camminare per strada in autonomia, rifare il letto, sistemare l’armadio, tagliare le pietanze, mangiare correttamente a tavola. Insomma quando sono uscita da lì facevo tutto da sola al 100 per cento. Sono tornata a Loceri, poi ho frequentato le magistrali a Lanusei e di nuovo a Cagliari dove mi sono laureata in Lingue e letterature straniere. Quando ho cominciato a insegnare mi sono resa conto che il mio interesse prevalente era quello di lavorare con ragazzi disabili, confrontarmi con loro è diventato vitale, insegno ma traggo anche molto, è uno scambio continuo da 20 anni. Però ho un grande cruccio”.

Quale?

“La chiusura dell’istituto per ciechi. Rendiamoci conto che non abbiamo un ente, una struttura, un centro che possa seguire le persone cieche nel loro percorso. Immaginiamo una famiglia sarda in cui nasce un bimbo non vedente: non lo si può educare, non lo si può crescere allo stesso modo di un bambino normodotato. I bambini ciechi non hanno i medesimi stimoli: quando si è piccoli si apprende con l’osservazione, anche la masticazione è un’operazione che il bimbo impara perché lo vede fare agli adulti, il suo istinto lo spinge solo a succhiare. E poi la mimica facciale, un segnale di comunicazione importantissimo, l’allungare le manine per toccare gli oggetti, un bimbo cieco non ha queste possibilità”.

Con la sorella Paola, presidente provinciale di Cagliari dell'Anpvi (foto concessa)
Con la sorella Paola, presidente provinciale di Cagliari dell'Anpvi (foto concessa)
Con la sorella Paola, presidente provinciale di Cagliari dell'Anpvi (foto concessa)

Cosa manca ancora oggi?

“Una politica di sensibilizzazione alla conoscenza dell’handicap, bisogna dare ai ragazzi la formazione che per fortuna ho potuto avere io. A Cagliari siamo a buon punto grazie all’Anpvi locale, di cui faccio parte da tantissimi anni prima di arrivare al livello nazionale: organizziamo corsi di surf, di arrampicata”.

Arrampicata?

“Incredibile vero? Eppure, a pensarci bene, chi non vede è avvantaggiato! Gli istruttori e chi era a Ulassai a vivere quell’esperienza hanno provato un’emozione fortissima, e una commozione enorme nel vedere quei ragazzi. Ma ci sono anche i corsi di ceramica: l’insegnante era stupefatta per le forme, per i colori, le pitture realizzate erano uno spettacolo davvero. E non vorrei tralasciare il baseball”.

Come funziona?

“Con una palla sonora, e nella base i ragazzi vengono chiamati con dei suoni, chi corre verso la base viene guidato da un fischio, insomma si segue lo stimolo sonoro”.

Si parla anche tanto di socializzazione.

“Per noi è importante stare in mezzo alle persone, cresciamo noi e crescono anche gli altri. Per il surf al Poetto in tantissimi si sono avvicinati per capire cosa stessimo facendo, ci si deve approcciare all’handicap e affrontarlo, altrimenti rimarremo sempre legati agli stereotipi del cieco col bastone, con gli occhiali da sole. Il nostro intento è quello di rendere la città più sensibile a questo tema”.

Lei cosa insegna?

“Tengo corsi per ragazzi disabili sensoriali visivi, scrittura braille, anche per chi è a contatto con i non vedenti, per i formatori, gli assistenti sociali, chi opera nel mondo scolastico. E un altro settore importante è quello della sanità, col progetto ‘Ospedale ospitale’ incontriamo il personale dei reparti per dare informazioni su come accogliere il non vedente nella struttura, come comunicare, come aiutare. Non è una cosa da sottovalutare”.

Come è arrivata a diventare presidente nazionale dell’Anpvi, la prima donna?

“Il merito ce l’ha il presidente uscente, Egidio Riccelli. Mi aveva fortemente voluto come vice, e ho fatto anni di esperienza accanto a lui, che l’anno scorso purtroppo ci ha lasciato. Era appena stato riconfermato, come me nel ruolo di vice. Ora il consiglio, all’unanimità, mi ha voluta come presidente, ne sono immensamente felice”.

Monica Taula con alcuni componenti del Consiglio nazionale dell'Anpvi (foto concessa)
Monica Taula con alcuni componenti del Consiglio nazionale dell'Anpvi (foto concessa)
Monica Taula con alcuni componenti del Consiglio nazionale dell'Anpvi (foto concessa)

Chi è stata la prima persona a congratularsi?

“Le ragazze dell’associazione di Cagliari, siamo tutte donne: dalle segretarie al presidente, nel consiglio c’è un solo maschio, siamo ‘col fiocco rosa’, tra noi esiste un bene immenso”.

Quali saranno i suoi primi obiettivi?

“Portare la progettazione realizzata a Cagliari in tutte le sedi periferiche dell’associazione nazionale, nelle altre regioni che per anni sono rimaste ferme e statiche. Le associazioni esistono se ci sono i soci, quindi bisogna essere presenti sul territorio. Ho sostenuto con forza il centro di Campagnano di Roma, la scuola dove alleviamo e addestriamo i cani guida. Una grande collaborazione è quella con Ierfop, che in pratica realizza i nostri sogni. Noi non siamo una scuola, non possiamo tenere corsi, mentre può l’Istituto Europeo per la Ricerca, la Formazione e l'Orientamento Professionale. Mi viene in mente il corso di make up di base per le donne cieche, non un trucco complesso, ovvio, ma fondotinta, fard, matita per gli occhi, rossetto sanno metterli benissimo ora”.

Una formazione che non possono fare tutti.

“Dico una cosa: se dai a una persona gli strumenti giusti, può fare ciò che vuole. Io dimentico di non vedere, uso i miei ricordi, ma ci vuole una ginnastica mentale altrimenti il cervello si spegne, come si spengono gli occhi. È importante anche abituare chi ha visto a continuare a vedere con la mente. E lo può fare solo chi ha una formazione dedicata”.

Il braille è ancora fondamentale?

“Lo insegnerei in ogni scuola e a ogni docente, non solo quelli di sostegno. Molti bambini ciechi inseriti nelle scuole pubbliche non lo conoscono, usano il computer con sintesi vocale. Ma chi non sa leggere e scrivere non va avanti. Leggere da soli un testo, senza la voce che lo faccia al posto tuo, è completamente diverso. Ti puoi anche laureare, ma senza il braille sei analfabeta: il computer è un aiuto, qualcosa a cui arrivi, non l’unico mezzo”.

La società è pronta?

“Assolutamente sì, pronta ad accogliere le nostre richieste, presentate con ragionevolezza. Chiedere e non pretendere, allora puoi ottenere un accoglimento. Io non sono per la polemica o per lo scontro, gli errori si fanno perché non si sa, non si conosce una certa realtà”.

Una persona cieca in famiglia: meglio proteggerla e agevolarla o lasciarla libera di muoversi?

“Faccio l’esempio di una mamma: il suo amore, purtroppo, in questo caso non crea un vantaggio. È invece necessario che anche da noi esistano, come in tanti Paesi europei, dei centri in cui bambini, ragazzi, ma anche adulti possano appropriarsi di strumenti per rendersi autonomi e vivere la vita in serenità. Perché si può. Io e tanti altri ne siamo la prova”.

© Riproduzione riservata