Lo chef giramondo, partito dalla Sardegna, si è fermato a Berlino: ecco il “Domu Nosta”
Il locale ha aperto i battenti pochi giorni prima del lockdown: «Ma non ci siamo arresi e, anzi, abbiamo dato ancora di più». Nel menu tante proposte della tradizione isolana e piatti con ricette di famigliaQuando ha lasciato la Sardegna aveva 18 anni, e non è mai più tornato se non per le vacanze. Una vita all’estero, nelle cucine dei ristoranti di mezzo mondo, a coltivare la sua professione e a cercare di «imparare sempre di più». Alessandro Saiu, 39 anni, di Gonnosfanadiga, ha aperto a Berlino il suo ristorante, “Domu Nosta”, ed è l’executive chef. Un locale che ha una filosofia ben precisa: «Se non hai tempo di aspettare per mangiare, non è il posto che fa per te. Se hai fretta, e ti vanno bene le paste precotte, vai altrove».
Scuola alberghiera ad Alghero, dopo alcuni stage ha fatto le valigie. Destinazione: Olanda, Spagna, Inghilterra, Australia, Asia. Una serie di circostanze lo hanno spinto a rimanere fuori dall’Italia: «Basta con turni doppi o tripli, stagioni che non finiscono mai. Questo è un lavoro di per sé molto stressante, servono passione e sacrificio, ma c’è anche una vita. In Germania sto bene, mi manca la Sardegna, prima o poi tornerò, in un futuro».
Per ora è concentrato sul “Domu Nosta”, che ha una storia molto particolare.
«Abbiamo aperto il 13 marzo 2020, quattro giorni prima del lockdown per la pandemia da Covid. Avevamo iniziato a organizzare tutto a fine anno, siamo partiti per una vacanza e tornati il primo gennaio per cominciare a ristrutturare il locale. Poi quella terribile notizia, nessuno si aspettava che ci avrebbero privato della libertà».
Ma lei e Laura, la sua compagna e manager del ristorante, non vi siete arresi.
«Al contrario, ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo inventati di tutto per continuare con varie proposte. L’alternativa era la bancarotta, e noi avevamo dalla nostra parte il grande entusiasmo. Per esempio ci siamo messi a vendere castagne e vin brulé. La nostra fortuna era il fatto che non avevamo bisogno di molto personale e siamo riusciti a sopravvivere».
Take away?
«No, mai fatto, il nostro cibo non si presta a essere inserito nei contenitori e consumato altrove».
Perché no?
«Abbiamo pochissimi piatti, tutto fatto a mano e al momento, con una cura ampia dei prodotti e un’alta manipolazione degli alimenti».
Qualche esempio?
«Dalla tradizione sarda i malloreddus, che propongo anche col nero di seppia, e servo con un ragù di mare, l’agnello al cannonau, che è quello che preparava mia nonna e ho rivisitato nell’impiattamento, magari aggiungo delle prugne o altri ingredienti che trovo qui in Germania: patate viola, sedano rapa. A Pasqua inseriremo l’agnello sardo Igp, e poi carciofi con bottarga, culurgiones».
Ricette di famiglia?
«Molte sì, ho cominciato a cucinare da bambino, era quello il mio gioco. Da lì è nata la mia passione per questo lavoro. Che non si ferma mai: creo sempre qualcosa di nuovo, impiego anche settimane per inventare un nuovo piatto. Il polpo croccante, ad esempio: ci ho messo due mesi a farlo come lo desideravo nei dettagli».
Perfezionista?
«Molto. Con qualche difetto: spingo per avere il meglio da tutti, che sia il lavapiatti o l’aiuto cuoco. In cucina si lavora come quando fai il pit stop in Formula 1, ci vuole molta concentrazione».
Cosa dicono i clienti?
«Abbiamo 15-20 posti, non tanti, quindi c’è molta cura per ognuno di loro. Passo fra i tavoli per raccogliere le loro impressioni e sono sempre contenti, la riprova sta nel fatto che poi tornano. A volte hanno dei pregiudizi perché vedono che proponiamo solo due o cinque portate, abbiamo abolito il piatto di pasta diviso in due, cosa tipica in Germania. Ma poi si ricredono».
Nessuno scontento?
«Qualche tedesco sull’abbinamento dei carciofi con la bottarga: “Secondo me non stanno tanto bene insieme”. Ma è un gusto molto particolare, ti può piacere o no, mica se ne può discutere».
Cosa prepara a mano?
«Tutto. Dalle paste fresche al civraxiu, ci vuole tempo ma il risultato ripaga. Quello che proponiamo non è un primo o un secondo, è un’esperienza, con cura maniacale per ogni dettaglio».
Cosa arriva dalla Sardegna?
«Le materie prime: scelgo soprattutto fornitori della mia zona, ce n’è uno che produce abbamele praticamente solo per me. Poi carciofi, formaggi».
È vero che i ristoratori non trovano personale perché nessuno vuole più lavorare in questo settore o è vero che sono professioni sottopagate?
«Sono due verità. Anche in Italia ci vorrebbe il salario minimo, insieme a orari definiti, i giusti riposi. Se offri questi elementi trovi chi assumere. Anche a me quest’estate in Sardegna è capitato di trovare locali chiusi a pranzo perché sprovvisti di staff».
I ragazzi sardi che vogliono fare gli chef dovrebbero andare all’estero?
«È un’esperienza che secondo me dà tanto. Più viaggi più impari. Di quelli che conosco e che hanno frequentato le scuole alberghiere, per il 70-80 per cento hanno poi fatto tutt’altro, in Sardegna come fuori. Questo lavoro dà tante soddisfazioni ma richiede sacrifici prima di vedere qualche risultato, quindi sono molti quelli che abbandonano. E poi, diciamolo, non è super pagato».