Era un ragazzino di 17 anni quando ha lasciato la Sardegna per andare in Svizzera. In tasca Nando Ceruso, che oggi di anni ne ha 76, aveva tanti sogni, un contratto di lavoro per una delle più importanti acciaierie, e la voglia di vedere qualcosa “al di là del mare”.

Suo padre era all’oscuro di tutto, «complice mia madre, gli avevamo detto che sarei partito per uno stage», invece il giovane Nando non sarebbe più tornato a vivere a Oschiri.

La valigia era pronta, era il giorno del suo compleanno – 13 giugno - quando ha preso la nave. Catapultato a Bodio, Canton Ticino, ha fatto il suo ingresso alla Monteforno. «E lì mi si è aperto un mondo fatto di sardità. La gran parte dei miei colleghi arrivava dal Sassarese e dalla Gallura: su 980 dipendenti, ben 300 erano sardi».

Essendo tanto giovane, non viene inserito nei reparti più delicati, ma al piegatoio, «dove si realizzavano le sagome del ferro per il settore edilizio. Appena diventato maggiorenne mi sono fatto trasferire nel cuore dell’acciaieria. Settimana lavorativa di 48 ore, uno stipendio già all’epoca superiore a quelli italiani, riuscivo a portare a casa 700-800 franchi svizzeri, arrivavo a mille con gli straordinari». E una buona parte li mandava alla famiglia a Oschiri.

Il primo passaporto rilasciato nel 1964 dal Consolato generale d'Italia a Lugano (foto concessa)
Il primo passaporto rilasciato nel 1964 dal Consolato generale d'Italia a Lugano (foto concessa)
Il primo passaporto rilasciato nel 1964 dal Consolato generale d'Italia a Lugano (foto concessa)

Dormiva in una camera che aveva preso in affitto da un’anziana signora «che mi vedeva un po’ come un nipote, sono rimasto lì una decina d’anni», nel tempo libero frequentava i colleghi: «Per noi era importante parlare la nostra lingua, e tra l’altro il mio era un sardo antico, diciamo non “contaminato” dalla modernizzazione, perché da bambino stavo spesso con mio nonno, che usava termini che ora nessuno ricorda nemmeno più». C’era un forte legame fra i componenti della comunità sarda: «Quando arrivava uno nuovo lo aiutavamo in tutto, anche economicamente, fino al primo stipendio. Questo è quello che ci ha sempre contraddistinto agli occhi degli svizzeri: la nostra grande unione e solidarietà, siamo stati promotori in tantissime occasioni di raccolte fondi per finalità benefiche».

Ci sono stati anche gravi incidenti sul lavoro che hanno coinvolto dei sardi. «Mi ricordo di un ragazzo di 20 anni di Oschiri, era il 1966, e lavorava alla movimentazione dei vagoni dalla stazione allo stabilimento. Stava per terminare il turno, alle 9 e mezza di sera. Aveva detto al collega “vai a casa, dalla tua famiglia e dai tuoi figli, che qui finisco io”. È rimasto vittima di uno schiacciamento fra due carri ferroviari. Si chiamava Salvatore Batzu, non l’ho mai dimenticato».

Com’è nata poi l’idea di creare un circolo?

«Abbiamo cominciato con cene per la comunità sarda, proposi di far nascere – sull’esempio di altre cittadine – un’associazione anche a Bodio. Quindi presi contatti con Domenico Scala (oggi vicepresidente vicario della Consulta per l’emigrazione della Regione Sardegna, ndr) per avere qualche “dritta” su norme e regolamenti. Il 1980 è stato l’anno di fondazione del “Coghinas”. Insieme a me c’erano Antonio Fadda, Antonio e Giovanni Maria Delogu, tutti di Tula; Salvatore Gallittu di Pattada, Andrea Vargiu e Rinaldo Nicastro di Oschiri, Bachisio Masala del Sassarese, Antonio Testoni di Bonorva, e poi don Tonino Frassu, che era il nostro padre spirituale».

Nando Ceruso, primo a destra. Al suo fianco Tullio Locci, il decano dell'emigrazione sarda organizzata in Italia (foto concessa)
Nando Ceruso, primo a destra. Al suo fianco Tullio Locci, il decano dell'emigrazione sarda organizzata in Italia (foto concessa)
Nando Ceruso, primo a destra. Al suo fianco Tullio Locci, il decano dell'emigrazione sarda organizzata in Italia (foto concessa)

I primi tempi?

«In breve abbiamo fatto in modo di avere una sede e nel giro di un anno siamo diventati uno dei circoli più dinamici, alle iniziative partecipavano anche mille sardi».

Cosa dicevano gli svizzeri degli emigrati?

«Noi eravamo visti sempre molto bene, e lo dico con orgoglio. La nostra era una comunità di gente laboriosa, rispettosa delle regole, impegnata nel volontariato, solidale ma combattiva quando c’erano da difendere i diritti dei lavoratori. Nei primi anni Ottanta nella zona di Bodio c’erano almeno 3 o 4mila sardi, in tutta la Svizzera 40mila, una cifra che nel tempo si è mantenuta ed è anche cresciuta».

Alla vigilia del congresso della Federazione dei circoli che si svolgerà a Lugano dal 13 al 15 ottobre, quali sono i temi più importanti?

«Quelli sociali ed economici soprattutto. La Sardegna deve riuscire a sviluppare una classe politica che sia all’altezza delle altre in Europa, e lo dico senza polemica. Dobbiamo esprimere personalità che abbiano una visione chiara di ciò che accade altrove nell’Ue e nella stessa Svizzera che comunque è parte di vari accordi. I trasporti sono un altro tasto dolente, gli spostamenti sono in balia di due compagnie navali e di un paio di vettori aerei. Ma saper gestire le risorse è importante, serve gente competente».

Un incontro al circolo "Coghinas" di Bodio (foto concessa)
Un incontro al circolo "Coghinas" di Bodio (foto concessa)
Un incontro al circolo "Coghinas" di Bodio (foto concessa)

Questione migranti, quanto se ne discute in Svizzera?

«È un Paese che ha avuto un pregio: la delicatezza. Quando siamo arrivati noi sardi avevamo un lavoro, siamo stati accolti dignitosamente. In generale si è trattato di un processo graduale di integrazione che è stato seguito da vicino. Ad esempio nei confronti dei figli degli immigrati non c’è stata alcuna discriminazione. E oggi, infatti, gli italiani eccellono sul rispetto delle regole perché hanno assimilato una cultura che a loro sta bene. È stata una politica di accettazione e di integrazione. I migranti oggi non vengono accolti a braccia aperte, si parla sempre di blocco. C’è il terrore di essere “invasi”. In sostanza la Svizzera non vuole arrivare a 10 milioni di abitanti nei prossimi anni, considerando che oggi sono 8 e mezzo».

E la sua passione per le vertenze sindacali?

«Ho guidato qualche sciopero, ammetto di essere stato un po’ un leader. Mi sono sempre occupato di temi sociali che riguardavano gli emigrati ed entravo a fare battaglia anche quando la polizia eccedeva».

Dopo la Monteforno?

«Sono rimasto lì fino al 1991. Oggi faccio il pensionato attivo, date le conoscenze che ho nel settore dedico del tempo all’assistenza di lavoratori che, non essendo iscritti al sindacato e non potendosi permettere un legale, non sanno a chi rivolgersi. Sono ancora socio del circolo “Coghinas” e faccio parte dei probiviri della Federazione».

Un momento conviviale tra i soci del circolo "Coghinas" (foto concessa)
Un momento conviviale tra i soci del circolo "Coghinas" (foto concessa)
Un momento conviviale tra i soci del circolo "Coghinas" (foto concessa)

Gli emigrati degli anni Duemila sono molto diversi da quelli del secolo scorso?

«Intanto sono sempre meno, non paragonabili a quelli degli anni Sessanta, e si tratta di persone – a differenza di come eravamo noi – altamente specializzate in ambito sanitario o tecnico, per fare qualche esempio. Qui il tasso di disoccupazione è basso ma c’è molto spazio per la manodopera qualificata». 

Ha mai avuto nostalgia della Sardegna?

«Un sentimento molto atroce nei primi anni di emigrazione, avverti un grande distacco, però rimani, anche se sei combattuto, perché pensi che nella tua terra non hai altre prospettive. Poi passa il tempo, e ti forgia. Io avevo iniziato a fare judo, ho coltivato legami diventati sempre più forti. Oggi la Svizzera è la mia seconda patria, e devo dire che ha qualche tratto di somiglianza con la Sardegna: un po’ rurale ma con realtà industriali. A Lugano si vive bene, la sanità e la sicurezza funzionano, oggi farei fatica a lasciarla definitivamente per avere in cambio molto poco. Aria buona? Sì, ma il resto?».

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