C’è tanta Sardegna nelle opere di Stefano Soddu, l’artista che in questi giorni espone a Milano, allo Studio Museo Francesco Messina, con la mostra “Geometrie del ferro”, curata da Maria Fratelli (visitabile fino al 12 giugno allo studio museo Francesco Messina, ingresso libero): 24 opere realizzate tra il 1999 e il 2019 che si snodano lungo il percorso temporale di questi vent’anni in cui Soddu ha lavorato non solo il ferro ma anche altri materiali come le polveri.

Classe 1946, nato a Cagliari, si è trasferito a 10 anni a Milano: “Mio padre era ingegnere – spiega a L’Unione Sarda – e prima della guerra era nelle acciaierie Falck, poi è rientrato a Cagliari e nel 1956 è stato richiamato a Milano alle acciaierie Breda. Io, i miei due fratelli e i miei genitori siamo quindi tornati in Lombardia, ma abbiamo ancora una casa di famiglia dei nonni a Serramanna”.

Duttile, facilmente reperibile, il ferro è uno degli elementi più comuni sulla Terra, ma Soddu – presente in 52 musei e raccolte pubbliche in Italia e all’estero – sceglie di unirlo a concetti vicini allo spirito, elevandone in qualche modo la sostanza. È il caso di “Raggi dell’anima”, un’opera formata da dischi che con la loro forma, il cerchio, rappresentano la perfezione, e un taglio che invece suggerisce l’imperfezione, “come noi umani, che non siamo perfetti”. I ferri sono sospesi in parete e dietro i cerchi si sviluppa un alone colorato che si espande oltre il perimetro: “Come lo spirito, che non si ferma dietro una barriera di ferro, non si fa ingabbiare, ma cerca un proprio spazio”.

"Raggi dell'anima", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Raggi dell'anima", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Raggi dell'anima", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)

Cerchi ma non solo: anche quadrati, rettangoli, triangoli: simboleggiano qualcosa in particolare?

“Quadrato, cerchio e triangolo sono i simboli dell’Universo, in Oriente dicono del Sengai, poi ripresi anche dalla cultura occidentale nello studio dei frattali in cui si dice che tutto l’Universo può essere composto da queste tre figure. Il mio modo di agire sul ferro è andare su geometrie semplici proponendo rotture o interventi che destabilizzino le geometrie stesse e diano un significato diverso. Per esempio nelle piastre circolari: la perfezione e poi il taglio imperfetto, e infine il colore riflesso in forma di polvere”.

Come si è avvicinato alla scultura?

“Per me esiste da sempre, ho operato in maniera materica anche quando dipingevo, le prime opere scultoree sono state a metà degli anni Settanta. La pittura non è mai stata il mio forte, odiavo dipingere con l’olio perché bisognava aspettare troppo, non c’erano gli acrilici all’epoca. Io voglio invece immediatezza e ho preferito giocare con i materiali”.

Artisti si nasce o si diventa?

“Un po’ ci si nasce, l’arte è sempre stata la mia passione. Ci sono suggestioni che provengono dall’infanzia e poi restano per sempre dentro di noi”.

Per lei quali sono state?

“La Sardegna: è la madre. Le sue rocce, il suo mare, le sue bellezze, i suoi odori e colori, il vento, il sole, i riflessi della luce sono stati essenziali nella mia vita, anche quella interiore”.

Quali sono le caratteristiche che l’affascinano del ferro?

“Il ferro è comparso dopo che ho lavorato molto con il legno. È duttile, permette forme che altrimenti sarebbe difficile ottenere e che vengono realizzate in laboratorio o in officina per operare sugli spessori”.

Solo pregi? Nessuno difetto?

“Ne intravedo solo uno: la pesantezza”.

Stefano Soddu durante la realizzazione di un'opera (foto ufficio stampa)
Stefano Soddu durante la realizzazione di un'opera (foto ufficio stampa)
Stefano Soddu durante la realizzazione di un'opera (foto ufficio stampa)

Il ferro ha un’anima?

“È un materiale inerte, il senso dell’anima arriva con l’intervento dell’uomo, è lui che crea l’essenza con la sua idea e il suo talento. Talento che si ha il dovere di mostrare agli altri, non per egocentrismo ma per far crescere la società in cui si vive. Ognuno ha un suo talento, questo mi pare indubbio”.

Quali sono i materiali e colori che richiamano la sua terra di origine?

“Sabbie dorate, coralline, le polveri di ferro che escono dalle miniere del Sulcis dove mio padre mi portava la domenica in gita. Dirigeva una piccola fonderia e andava a recuperare materiale portando anche noi bambini. Una delle suggestioni più forti era quella di stare sul palco del forno dell’acciaio e guardare le colate di ferro liquido. Allora, insomma, lo dico con un sorriso, non c’era la sensibilità antinfortunistica di oggi e io e i miei fratelli abbiamo potuto vedere quello spettacolo davvero d’impatto”.

In Sardegna il vento da solo realizza delle sculture incredibili, ammirate e fotografate.

“Il maestrale soprattutto, le rocce granitiche corrose da sabbia e vento assumono forme fantastiche ma il vento in particolare fa sollevare la sabbia dalle spiagge e le rende come delle aree vergini, togliendo tutte le orme umane. Se si ha fortuna di arrivare dopo una giornata di vento, si può camminare sulla spiaggia vivendo un’esperienza bellissima e mistica”.

Per creare una sua opera da dove parte?

“Non ho il pensiero di creare una cosa nuova, vedo un oggetto che mi colpisce per strada o in campagna e improvvisamente mi scatta qualcosa, normalmente me la segno e cerco di trovare da quella possibilità una realizzazione sia materiale sia di forma sia riferibile a qualcosa di spirituale o culturale e provo a concretizzarla in maniera perentoria in un oggetto”.

“Sindone”, ad esempio, è un riferimento storico-religioso ma ha scelto un materiale che non è considerato nobile, il ferro appunto.

“Immagino che anche la tela grezza del corpo di Cristo non fosse particolarmente nobile. In quell’opera c’è una presenza che fuoriesce, impressa in questo metallo che a me ricorda il discorso della sindone come capacità dell’uomo di lasciare nel mondo un’impronta di se stesso”.

"Sindone", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Sindone", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Sindone", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)

“Panchina bagnata” invece cosa rappresenta?

“È nata quasi per scherzo: nel 1999 sono stato invitato a una mostra sulle panchine, era estate, ‘sotto il sole – mi sono detto – sarebbe troppo calda, vediamo di fare un’opera che possa rinfrescare’. Ironizzo un po’ ma qualcosa di vero c’è, infatti è composta da una serie di celle realizzate con rondelle di ferro brutalizzate in superficie per dare il senso di forza dell’uomo, e poi viene aggiunta l’acqua”.

"Panchina bagnata", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Panchina bagnata", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Panchina bagnata", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)

Qualche altra opera a cui è particolarmente affezionato?

“Ce n’è una abbastanza recente, che ho esposto, e che precorre gli avvenimenti di questi tempi di guerra tra Russia e Ucraina. Sono 10 triangoli che ho chiamato ‘Percorso orizzontale’, ma il nome originario era ‘Confini’: hanno bordi lavorati col plasma quindi molto frastagliati, duri, hanno la punta rivolta verso l’alto, di conseguenza pericolosa, una sorta di arma. I confini sono sempre pericolosi e sofferti, mai definiti e definitivi”.

"Percorso orizzontale - Confini", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Percorso orizzontale - Confini", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)
"Percorso orizzontale - Confini", opera di Stefano Soddu (foto ufficio stampa)

Le sue creazioni hanno un messaggio esplicito oppure ognuno ci può vedere cose diverse?

“Il messaggio è quello che ho cercato di dare io, ma non tutti vedono la stessa cosa, e questo è un bene, quando le opere si staccano da chi le ha realizzate vivono di vita propria, magari trovano dei messaggi da me non esplicitamente voluti. Non ho mai amato dare dei ‘titoli’ ma mi hanno chiesto sempre di metterli, spesso nascono strada facendo”.

Quindi ogni persona ha una sua visione.

“Chi guarda un’opera d’arte ha una propria cultura, un background, e anche nel mondo dell’arte avrà visto delle opere nelle chiese come minimo, per cui normalmente se l’opera esposta ha qualcosa di latente in se stessa, chi la guarda si aggancia a quella parte per poi costruire qualcosa di proprio. Se c’è troppa latenza, l’osservatore pensa ‘questo l’ho già visto’, se ce n’è poca rimane incomprensibile, l’equilibrio è il giusto punto di latenza e innovazione”.

L’artista è il primo critico di se stesso oppure vede quello che fa sempre perfetto?

“Il primo critico è la moglie. No, scherzo. Non finisco mai il lavoro subito, lascio le opere senza titolo e senza firma, spesso c’è qualche modifica che subentra dopo e che rende il tutto più equilibrato”.

Cosa le ha lasciato dentro la Sardegna?

“Io dico che amo arrivare in nave perché mi gusto l’aria che entra nelle narici all’ingresso in porto. Il fatto che sia un’Isola è un problema per tanti motivi ma rappresenta per altro verso un fascino incredibile.  Mi dà sempre emozione quando ci penso. Capisco perfettamente il campidanese, provo a parlarlo con pochi risultati perché non ricordo molte parole, però sento la Sardegna nel mio Dna, c’è anche un mio libro uscito con un titolo formato da una parola inventata”.

Quale?

“Perdamarebentu, ossia pietra mare vento: è il racconto di un viaggio lungo i litorali fatto con un amico fotografo. Insomma una suggestione, una suggestione chiamata Sardegna”.

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