Il mal di Sardegna non lo abbandona, è una costante della sua nuova vita a Varsavia, e dalla Polonia guarda Cagliari con nostalgia. Simone Onnis, 29 anni, dopo la laurea in Giurisprudenza col massimo dei voti e menzione, con una tesi in materia di antiriciclaggio, ha lasciato l’Isola. A malincuore.

Durante gli anni accademici ha collaborato con la Cisl, era portavoce nazionale degli under 30, e già in occasione dei congressi aveva dato voce al problema del depauperamento dello Stato rispetto al capitale umano: «Perché ci chiedono di cambiare il nostro Paese ma non possiamo cambiarlo se non ci permettono di restare».

Grazie a una borsa di studio ha seguito un progetto a Sydney, in Australia. «Opportunità grazie alla quale mi sono “messo in vetrina” e ho ricevuto proposte di lavoro da diverse banche all’estero nonostante i temi dell’evasione e dell’antiriciclaggio siano molto importanti in Italia. Pensiamo che ogni anno tocchiamo i 90 miliardi di euro. E il riciclaggio è insito nelle organizzazioni criminali, nel nostro Paese una piaga sociale importante. Tuttavia le possibilità di sviluppare le mie competenze non le ho avute». E allora ha accettato di spostarsi a Varsavia, in una delle banche più importanti del mondo, JP Morgan, per fare un lavoro che davvero lo appassiona, l’ispettore antiriciclaggio.

In Italia nessuna possibilità?

«Mi hanno offerto contratti da 3 o 4 mesi, senza possibilità di proseguire. Qui a Varsavia dal primo giorno ho un contratto a tempo indeterminato. Ma persisto nel rimanere qui perché il mio obiettivo è rientrare».

Lei è un cervello in fuga insomma.

«Un’espressione non bellissima ma che rende bene l’idea. Noi italiani siamo molto apprezzati all’estero per la passione e l’estro che tutti ci riconoscono. E invece il nostro Paese non solo non sa offrirci opportunità, ma addirittura ci volta le spalle, ne è un esempio la bozza di decreto del governo».

Di cosa si tratta?

«Fino ad ora esisteva un regime fiscale agevolato per chi decideva di rientrare, ora invece – nelle previsioni – ci sarà un taglio non indifferente. Per la serie: siete emigrati? Non avrete più convenienza a tornare».

Cosa perderà l’Italia?

«Tutti i suoi giovani che sono dovuti andare via per avere delle opportunità di carriera, con profili spesso di grande caratura che si ritrovano costretti a spendere all’estero. Un controsenso vero e proprio. Una ricchezza che regaliamo agli altri Stati, anche dal punto di vista fiscale. L’Italia ha sostenuto dei costi per i nostri studi, e a beneficiarne sono gli altri. Un capitale umano svanito».

Cosa si potrebbe fare?

«L’Italia è il secondo Paese con il maggior numero di Neet, ossia giovani che non studiano, non lavorano, non si formano. Questo significa che un problema esiste. Il governo, attuando politiche che consentano a tanti di noi emigrati di tornare, riuscirebbe a contrastare questo dato ma, di fatto, assistiamo inermi a un comportamento autolesionista e masochista. E ne soffriamo».

Lei resterà a Varsavia?

«Io ricevo proposte da Edimburgo, da Singapore, per fare qualche esempio. Ma rimanere in Polonia significa per me essere più vicino alla Sardegna, anche se ogni volta sono viaggi fatti di scali infiniti di ore e ore».

È una questione di principio?

«Anche ma non solo. Non mi sembra un reato voler spendere il mio curriculum nel mio Paese, e c’è da dire anche un’altra cosa: la vita è fatta di priorità. Abbiamo studiato e fatto tanti sacrifici, ora ci vogliamo realizzare. Ma non ho intenzione di lavorare 350 giorni l’anno per viverne 15 felici nella mia terra. Ciò che conta, soprattutto ora che siamo giovani, è avere un giusto bilanciamento tra famiglia, lavoro e relazioni sociali».

A proposito di questo, come sono le giornate a Varsavia?

«Faccio orari d’ufficio, per il resto poco o niente. Qui non c’è, faccio un esempio, la cultura dell’aperitivo, le temperature rigide non invitano a stare all’aperto, in questi giorni ci sono state delle nevicate. Il cielo, grigio, lo chiamo “monocolore”. Addirittura in estate non avevo neanche realizzato che fosse quella stagione, e la mancanza del mare mi ha spinto, in un fine settimana, ad andare nel Mar Baltico, il più vicino, pur di vedere lo specchio d’acqua».

Simone Onnis il giorno della laurea (foto concessa)
Simone Onnis il giorno della laurea (foto concessa)
Simone Onnis il giorno della laurea (foto concessa)

Quali sbocchi professionali potrebbe avere in Italia?

«Banche, multinazionali, pubbliche amministrazioni, organismi di sorveglianza. Contro il mio interesse continuo a tenere la residenza in Sardegna, questo mi consentirebbe di partecipare ai concorsi pubblici che, purtroppo, non vengono banditi».

Ha imparato il polacco?

«Ci provo, è una lingua complessa, è un modo per rendere il tempo funzionale e occuparmi la mente. Ma ripeto: non intendo restare qui per sempre».

Oltre a questa “barriera” ci sono altre differenze che ha rilevato?

«La città è viva, multiculturale, essendo una capitale europea nonostante la cultura diversa. Ma non ho trovato facile fare amicizia con nativi del posto. Ho incontrato persone che ritengono l’atteggiamento diffidente dovuto al fatto che siano quasi nuove alla democrazia, nell’ex Urss il divertimento era vietato e c’era molta povertà sotto la dittatura e forse oggi vige un po’ di sospetto per gli sconosciuti. Noi italiani magari imbastiamo una conversazione di circostanza alla fermata di un autobus, qui tra le persone c’è più distanza ma forse ciò si può riscontrare in ogni metropoli sebbene a Sydney abbia trovato una realtà più simile alla nostra. Forse “l’essere Isola” ci rende più aperti verso il prossimo».

Il lavoro comunque c’è…

«La domanda supera l’offerta. Arrivano giovani da ogni parte del mondo, possono realizzarsi e fare carriera con stipendi adeguati al resto d’Europa. Prima c’era una grande immigrazione di polacchi in Italia, soprattutto nel settore dei servizi alla persona, ora è il contrario. Sono i nuovi professionisti nel mondo della finanza e della tecnologia che vengono qui».

Eppure lei se ne vuole andare.

«Ogni sera vado a letto sapendo che vorrei risvegliarmi il giorno dopo a Cagliari. Forse è difficile da spiegare».

Il mal di Sardegna?

«Chiamiamolo così. A Varsavia l’aria e il cielo mi sembrano diversi. Non parliamo poi dei sapori. Invece quando torno a Cagliari mantengo un’espressione perennemente sorridente, quasi inebetita. Vedo tutto con occhi diversi anche se ho sempre amato la mia città già quando ci vivevo».

Non c’è il rischio di idealizzarla?

«Ho lavorato a Londra, Sydney, ho visto molte altre realtà, ma Cagliari resta la più bella. Ovviamente se tornassi senza un’occupazione sarebbe diverso».

Quando arriva quindi è felice, e quando riparte?

«Amo viaggiare ma quando la destinazione è il rientro a Varsavia lascio un pezzo del mio cuore. La mia famiglia – genitori e due fratelli -, la mia fidanzata. Mi avvolge un senso di tristezza perché so che mi sto allontanando dal luogo a cui appartengo. Sono sardo, dovrei rimanere nella mia terra».

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