Nei giorni scorsi ha suscitato scalpore l’intervento dell’Associazione Nazionale Magistrati, la quale, in merito al Nuovo Piano Strategico Vaccinale, aveva avuto modo di sottolineare, in un primo momento, il proprio rammarico siccome “i lavoratori del comparto giustizia” non erano stati ricompresi “tra i gruppi target di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria”, e siccome, di conseguenza, il “servizio giustizia” era stato considerato dal Governo “con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione”. Non è mia intenzione condurre un polemica sterile e strumentale sul significato del comunicato, anche perché sinceramente, in alcun momento ho interpretato siffatto intervento con la malizia confusoria tipica di chi abbia solo l’interesse a ricercare il “fallo” dietro ogni singola sillaba. Piuttosto, mi piace rilevare che ogni qual volta, in questo nostro Paese, si tenti di discorrere e/o di ragionare serenamente su temi sensibili, automaticamente si elevano muri, e il buon senso si smarrisce tra le maglie strettissime della propaganda più spicciola nella sua accezione di mezzo idoneo ad influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse, curiosamente elevata a crisma di verità e ragionevolezza. Forse mai come in questo momento, abbiamo invece avuto bisogno di recuperare, nel nostro quotidiano, quella indispensabile nozione di etica della responsabilità, strettamente connessa all’agire politico quale parte integrante di esso, intesa quale precisa assunzione di una obbligazione morale che prescinde da calcoli di convenienza o ricerca di consenso e che guida le azioni tenendo sempre presenti le conseguenze pratiche dell’agire. In un contesto siffatto, ogni scelta relativa ai criteri di priorità nei percorsi di accesso alla inoculazione del vaccino anti covid -19, rimanda, chiaramente a scelte che non possono non essere etiche ed addirittura, talvolta, in quanto tali, ed in quanto sottoposte a valutazioni inevitabilmente relativistiche, pure poco comprensibili.

Detto altrimenti: se è vero, come è vero, che le regole della Deontologia Medica impongono agli operatori sanitari di garantire a chicchessia l’accesso alle cure ed ai trattamenti di vario tipo, allora, e di conseguenza, vien da sé che la creazione (inevitabilmente arbitraria) di categorie di priorità può ben apparire come atto fortemente discriminatorio nell’immaginario comune e nel comune sentire che spinge quelle escluse ad affermare le loro istanze in qualche modo tradite. Basta poco, solo qualche scintilla, ed il corto-circuito dialettico è assicurato. Ebbene. Le criticità emergenti sul piano organizzativo debbono necessariamente essere assunte quale punto di partenza, e da esse non possiamo purtroppo prescindere. Quand’anche, quindi, non volessimo considerare la grave questione inerente il ritardo nei meccanismi di approvvigionamento del vaccino, dovremo comunque tenere in considerazione taluni altri ordini di circostanze, forse banali e scontati, ma evidentemente poco compresi, e/o poco accettati, sul piano pratico: la campagna vaccinale richiede un certo arco temporale di esecuzione; è impossibile procedere simultaneamente alla inoculazione del vaccino all’intera popolazione nella sua componente soggettiva; è doveroso, ed “eticamente” giustificabile, stabilire criteri utili di priorità nell’accesso alla inoculazione ed alla cura.

Purtroppo, all’atto pratico, chi ci governa, e lo dico in generale, probabilmente disorientato rispetto alle istanze provenienti sia da certa politica rigorosamente oltranzista e oppositiva, sia da categorie più o meno “influenti”, non è riuscito, soprattutto nelle prime fasi dell’intervento vaccinale, ad “imporre” un unico vero criterio ispirato a trasparenza e ragionevolezza, ma ha ceduto, in qualche modo, grossolanamente seppure non convintamente, alla seduzione fallace di una propaganda, tra le tante correnti, espressiva di una limitante nozione etica dei principi (per cui ogni “categoria” specifica può vantare valide ragioni per essere vaccinata prioritariamente), per definizione addirittura a-politica, completamente disancorata, nel caso specifico, da ogni ponderazione sulle conseguenze deformanti delle scelte da operarsi sul campo. Cimentandomi in un ragionamento da profana della materia, ed affidandomi alle dichiarazioni ed alle raccomandazioni rilasciate dai massimi esponenti scientifici, appare piuttosto chiaro, dal mio umile punto di vista, che il criterio di scelta più utile alle esigenze da soddisfare sia unicamente quello anagrafico, dal momento che gli anziani sono indubbiamente i più vulnerabili rispetto alle conseguenze di un potenziale contagio. Ogni altro criterio differenziale, e non meglio giustificato, sarebbe sempre e comunque discriminatorio, siccome ogni “categoria” specifica di persone e lavoratori avrebbe ben diritto di esprimere le proprie ragioni di “priorità” attivando una concatenazione centrifuga di recriminazioni che finirebbe per garantire la primazia della “legge della giungla”, ove il più forte soltanto sarebbe chiamato a sopravvivere e, di conseguenza, ad affermarsi sugli “altri”. In quale altro modo si potrebbe conciliare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge garantita dall’articolo 3 della Costituzione con la più ampia ed estesa tutela della vita? Quando si operano scelte così importanti occorre sempre tenere presenti i connessi limiti interpretativi e tutte le possibili obiezioni, e pertanto, sulla base di una attenta ponderazione tra gli uni e gli altri trarre le conseguenze utili. La questione non può essere certo risolta in sede discorsiva, ma già l’evitare atteggiamenti grossolani che sottraggano il vaccino agli aventi diritto sarebbe un grande passo in avanti.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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