Spesso sono i familiari ad accorgersi per primi che qualcosa non va: i sintomi che si presentano all’esordio della malattia di Parkinson sono in molti casi silenti, incostanti, variabili, e non destano particolare preoccupazione. Quelli che vengono considerati i “segnali precoci” di questa patologia neurodegenerativa sono infatti una combinazione di diversi fattori: perdita dell’olfatto, tempi di reazione più lenti, eccessiva sonnolenza diurna e alti livelli di emoglobina. Quando invece la malattia si trova in uno stadio più avanzato, cominciano ad apparire anche quei sintomi che confermano la diagnosi: i tremori diventano frequenti, si tende a perdere il controllo motorio e aumenta la rigidità degli arti, andando a compromettere notevolmente la qualità della vita del paziente. 

I campanelli d’allarme

Per una diagnosi quanto più precoce della malattia, con un conseguente anticipo nell’avvio del trattamento del disturbo, è quindi fondamentale tenere sotto controllo le prime spie di malessere.

Il presentarsi di deficit olfattivo, dolore alle grosse articolazioni e variazioni nella qualità del sonno costituiscono i primi campanelli d’allarme di cui è importante parlare con il proprio specialista di fiducia: si tratta infatti di sintomi non motori che consentono di identificare quei soggetti che presentano un rischio più alto di sviluppare la patologia con un anticipo di circa 10 - 12 anni. Cominciare il trattamento nella fase pre - motoria costituisce infatti una strategia efficace per rallentare la progressione della malattia. 

La diagnosi

Altri sintomi che spesso sono riconducibili alla malattia di Parkinson sono la stipsi, le disfunzioni sessuali, il calo del tono della voce e una produzione eccessiva di saliva. A questi si aggiunge anche uno dei segnali tradizionalmente associati alla patologia, ossia la difficoltà di ragionamento, di comprensione e di pianificazione. Nella maggior parte dei casi il Parkinson tende a manifestarsi intorno ai sessant’anni  ma non mancano casi (si tratta di circa il 10% del totale) in cui le prime avvisaglie compaiono già intorno ai quarant’anni.

Osservati e tenuti monitorati questi fattori rivelatori, è consigliabile effettuare una visita specialistica, nel corso della quale il paziente viene ascoltato e sottoposto ad un primo esame neurologico. Si procede quindi con gli esami strumentali, come la risonanza magnetica nucleare e la scintigrafia del cervello, che permette di ottenere una stima della quantità delle terminazioni nervose dopaminergiche presenti.

Anche il modo in cui il paziente risponde ai farmaci somministrati è molto indicativo: se la persona, seguendo un trattamento adeguato e costante nel tempo, mostra segnali di miglioramento, è molto probabile che la diagnosi di Parkinson sia corretta. Come anticipato, l’età avanzata è uno dei fattori di rischio che possono essere ricondotti allo sviluppo della patologia. Altri elementi che vanno presi in considerazione sono la familiarità, il sesso maschile, i traumi cranici e i disturbi dell’umore.

Il trattamento

Purtroppo oggi non esiste una cura definitiva alla malattia di Parkinson: trattandosi di una patologia degenerativa e a progressione lenta, chi ne soffre tende, nel tempo, ad essere sempre più instabile nella postura e/o nell’andatura. Il decorso della malattia impatta negativamente sulla vita dei pazienti e dei loro caregiver: per dare sollievo a chi ne soffre vengono quindi messe in atto misure ad hoc per gestire i sintomi e vengono avviati trattamenti che vedono la sinergia di diversi specialisti, tra cui neurologi, fisioterapisti, logopedisti e infermieri esperti. A causa della diversa combinazione di sintomi la terapia farmacologica viene di volta in volta modificata e viene calibrata sulle esigenze di ogni singolo paziente. Le cure disponibili aiutano a tenere sotto controllo i sintomi ma non sono in grado di arrestare lo sviluppo della malattia: per cercare di attenuarne l’impatto sono attualmente in corso studi e ricerche finalizzate a migliorare le terapie, migliorando così la qualità di vita dei pazienti.

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Parkinson, cure e ricerche: le nuove frontiere

Patologia neurodegenerativa che riguarda oggi lo 0,3% delle persone nel mondo, coinvolgendo un totale di circa un milione di soggetti in Europa e 150mila in Italia, il morbo di Parkinson è una malattia che si verifica nel momento in cui nei neuroni dopaminergetici si altera una proteina, l'alfa-sinucleina, che, con il trascorrere del tempo, si deposita sotto forma di agglomerati provocando la degenerazione delle cellule stesse. Dal momento in cui la patologia si manifesta, è possibile individuarne tre fasi. La prima, che può avere una durata dai cinque ai dieci anni, è quella caratterizzata da un complesso di sintomi prodromici, di cui fanno parte depressione, ansia e alterazioni nella fase Rem. A questa fase segue un periodo contraddistinto dalla comparsa di sintomi motori, come  ad esempio rigidità nei movimenti, postura curva, tremori alla mano e rallentamento durante il cammino. Con il trascorrere del tempo la situazione diventa progressivamente più grave, in quanto l'instabilità posturale peggiora e i disturbi cognitivi si acuiscono tanto che in alcuni casi si parla di demenza vera e propria.

I farmaci

Negli ultimi anni sono stati compiuti numerosi passi in avanti, che hanno permesso di migliorare sia la diagnosi che il trattamento del morbo. Grazie anche all'impegno svolto da enti e associazioni, la ricerca scientifica ha ottenuto risultati di rilievo, migliorando così la qualità di vita di chi soffre di Parkinson. Per contrastare la malattia una delle strategie più efficaci consiste nella somministrazione di levodopa, un farmaco che va a compensare la carenza di dopamina. Questa sostanza risulta efficace sul breve termine, ma, a lungo andare, può essere responsabile di ulteriori sintomi motori. Per ridurre questi effetti negativi si ricorre quindi all'assunzione, in combinazione o in sostituzione, di farmaci dopamino-agonisti. La terapia farmacologica va abbinata ad un adeguato percorso di riabilitazione motoria eseguita con il supporto di un fisioterapista specializzato.   

Stimolazione cerebrale

In alcuni casi, quando il paziente soffre di deficit cognitivi e disturbi psichiatrici, si procede con una stimolazione cerebrale profonda.

L'intervento neurochirurgico, effettuato dopo aver eseguito una sedazione leggera, prevede la pratica di piccoli fori nel cranio e l'inserimento di appositi elettrodi connessi a un neurostimolatore in grado di modulare l'attività dei circuiti cerebrali implicati nella malattia di Parkinson.

Il bilancio dei casi trattati è positivo, tanto che nel 60-80% dei casi il profilo clinico del paziente tende a migliorare.

Cellule staminali

Sono riposte grandi speranze anche nelle cellule staminali, ossia cellule primitive, non specializzate, dotate della capacità di trasformarsi in diversi altri tipi di cellule del corpo. Nel caso del Parkinson, in particolare, gli scienziati mirano a produrre cellule in grado di sostituire i neuroni dopaminergici. Stando agli ultimi studi pubblicati, indagini in questo ambito sono state portate avanti nell'analisi della malattia che colpisce le scimmie: si è partito quindi da staminali programmate per creare neuroni in grado di produrre dopamina, da impiantare in un secondo momento nel cervello.

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Sport a cielo aperto, un aiuto all'equilibrio
Sfruttare le potenzialità del territorio per promuovere la mobilità funzionale e per favorire un miglioramento dell'equilibrio: nasce con questa finalità il progetto "Sardegna palestra a cielo aperto: interventi motori adattati in ambiente naturale in persone con malattia di Parkinson" lanciato dal dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università di Sassari.

Lo studio

I pazienti, di entrambi i sessi e con diagnosi di malattia di Parkinson, saranno coinvolti nel progetto per una durata di un anno. Durante questi mesi avranno la possibilità di svolgere diverse attività sportive, come trekking, surf, kayak e vela, all'interno di un ambiente naturale.

Il gruppo di studio è coordinato da Lucia Cugusi, docente del corso di laurea in Scienze motorie, sportive e benessere dell'uomo dell'ateneo sassarese, con la collaborazione di altri istituti dello stesso ateneo, la Neurologia dell'Aou di Sassari, la Asl, le associazioni Parkinson di Sassari e Alghero e numerosi altri partner locali. I risultati ottenuti dallo studio saranno oggetto di divulgazione e pubblicazione specifica.

Questa iniziativa si inserisce in un contesto più ampio, che permette di mettere in luce i benefici dell'esercizio fisico in chi soffre della malattia. Anche il ballo sembra avere ricadute positive: stando ad uno studio condotto dai ricercatori dell’università di Friburgo, in Germania, sono notevoli i miglioramenti sulla rigidità, la mobilità di mani e dita, l’espressione del viso. All'indagine hanno partecipato i malati assieme ai loro congiunti, che hanno seguito otto mesi di lezioni settimanali sotto la guida di un'insegnante professionista. Muoversi a ritmo di musica ha fatto bene a 360 gradi: i pazienti  hanno infatti giovato dei miglioramenti sia sotto il profilo motorio che su quello mentale.

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