Gulia Tavilla soffriva di bulimia. È morta a 17 anni nel marzo del 2011, dopo aver atteso invano un ricovero in un centro per la cura dei disturbi alimentari. Da allora, il padre Stefano si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica e rompere il muro di silenzio su questo tema. Ha dato vita a un’associazione che ha promosso tante iniziative su un problema sanitario in continua crescita contribuendo all’istituzione della Giornata nazionale dei disturbi alimentari. I numeri sono allarmanti: 4.000, ogni anno in Italia le morti per anoressia e bulimia e, secondo gli ultimi dati, circa 3milioni le persone che manifestano i sintomi nelle differenti forme. Si tratta di patologie complesse in cui il comportamento alimentare assume caratteristiche scorrette: dall’eccessiva preoccupazione per il proprio peso ad un’alterata percezione dell’immagine di sé davanti a uno specchio.

«Secondo il DSM-5, manuale dei disturbi mentali, un problema alimentare è un’alterazione del consumo o assorbimento del cibo - spiega Daniela Frigau, psicologa specializzata nel ramo sistemico-relazionale - è dannoso per la salute fisica o per il funzionamento psicosociale dell’individuo. Tra i più conosciuti oltre all’anoressia nervosa (rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del minimo normale con un’alterazione della propria immagine) e la bulimia nervosa (abbuffate seguite da episodi di vomito autoindotto, eccessiva attività fisica, assunzione di lassativi, diuretici o farmaci), esistono anche altri disturbi come la pica (ingestione di sostanze non commestibili), la ruminazione (rimasticazione del cibo, ringoiato o sputato), l’assunzione di pochissimi cibi prediletti, e ancora il binge-eating ossia abbuffate incontrollate, senza presenza di vomito autoindotto, che portano all’obesità».

Oggi, grazie anche alla rete delle associazioni, queste patologie sono inserite nei LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, con un fondo che permette al Servizio Sanitario Nazionale di offrire più prestazioni, alcune delle quali totalmente gratuite. Gli adolescenti sono i più esposti. «Questi disturbi colpiscono più frequentemente le donne (90%) degli uomini (10%), anche se oggi l’incidenza per loro è in aumento soprattutto in età pre-adolescenziale o adolescenziale. Purtroppo, l’esordio è sempre più precoce, comincia tra gli 8 e i 9 anni. Con il Covid, poi, la situazione è peggiorata drasticamente».

Molti giovani ricorrono al cibo per manifestare la propria sofferenza, cercare un conforto o controllare le proprie emozioni. «Spesso, tra le cause, si nascondono stati depressivi, lutti, abbandoni, abusi o traumi infantili – sottolinea Frigau - ciò che riscontriamo anche nella pratica clinica è la difficoltà a fare i conti con le proprie emozioni e ad acquisirne consapevolezza. Il corpo viene utilizzato come contenitore o contenuto di vissuti dolorosi, il cibo diviene autocura per non pensare, ma soprattutto per nascondere un’estrema fame d’amore».

Prevenzione, riconoscimento precoce dei sintomi e azioni multidisciplinari nella cura aumentano le percentuali di guarigione: «Il percorso è lungo e richiede l’intervento di più figure: medico/pediatra, dietologo/nutrizionista, psichiatra e psicoterapeuta. Non è semplice però: chi soffre di un disturbo alimentare alza un muro tra sé e gli altri. È il corpo a parlare al suo posto e il sintomo altro non è che la punta di un iceberg che nasconde un malessere espresso attraverso l’uso del cibo». L’informazione è un buon punto di partenza: progetti nelle scuole, incontri con i familiari, individuazione di strutture pubbliche a cui rivolgersi. «In Sardegna, ci sono alcuni centri specializzati, ancora troppo pochi però rispetto all’incremento dei casi. Ma, al di là dell’intervento individuale o di gruppo, è importante promuovere la terapia familiare: molto spesso i genitori si trovano spaesati nella gestione del sintomo o, d’altra parte, è lo stesso sintomo a farsi portavoce di un malessere familiare».

Carla Zizi

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