La carne nel piatto è ridotta a uno scontro che oramai è un minestrone di posizioni varie: scienza e ideologia, rispetto per l’ambiente e ambientalismo di maniera. E mentre il governo esulta per il via libera definitivo alla Camera del disegno di legge che vieta la produzione e la vendita delle «carni sintetiche»; le opposizioni, parte della comunità scientifica, animalisti e vegetariani protestano. Gli uni contro gli altri, mentre i consumatori - cioè chi alla fine dice l’ultima parola sull’appetibilità del cibo - a meno che non abbiano una laurea in tecnologia alimentare fanno fatica a trovare una quadra.

«Io al mercato ci vado e chiacchiero con la gente. Quando chiedo “Mangerebbe una bistecca fatta in laboratorio?”, sa cosa mi rispondono?». Giuseppe Pulina, docente di Etica e sostenibilità degli allevamenti all’Università di Sassari, è il presidente dell’associazione Carni sostenibili (costituita da Assocarni, Assica e Unaitalia). Tra gli scienziati più citati al mondo in materia di scienze animali, è l’esperto chiamato dal Senato - quando nei mesi scorsi si accingeva all’esame del testo di legge - per stilare una relazione sul punto delle conoscenze scientifiche in materia di sicurezza alimentare e impatto ambientale delle carni prodotte in laboratorio. «Sono tante le ragioni per le quali una bistecca così non potrà mai essere paragonabile alla bistecca naturale».

Professore, lei è di parte. Rappresenta un’associazione costituita dalle tre più grandi associazioni di produttori.

«Sono prima di tutto un professore universitario e faccio lo scienziato. Sono io che parlo a Carni sostenibili, e dico ciò che dice la scienza, non ciò che vuole sentirsi dire Carni sostenibili».

È contento del via libera alla legge?

«Sì, come consumatore e come scienziato, perché si mette uno stop alla carne artificiale».

Chi ne difende la produzione dice che non c’è nulla di sintetico e che va chiamata carne coltivata.

«È vero, non c’è nulla di sintetico perché il processo nasce da cellule espiantate dagli animali. Ma non c’è neanche niente di coltivato. L’unica carne coltivata è quella che viene dalla zootecnia. La chiamerei carne artificiale perché le cellule sono allevate artificialmente».

Al di là della definizione, perché dice che la carne di laboratorio non è uguale a quella macellata?

«Per una serie di motivi. Il primo è che con le cellule espiantate tramite biopsia si fanno sviluppare tessuti diversi: da una parte il muscolo, da un’altra il grasso, da un’altra ancora il tessuto connettivo. Parti diverse che poi vengono macinate insieme agli stessi supporti, fatti di cellulosa, pectina, collagene eccetera, sui quali le stesse cellule vengono fatte crescere. Ma la cosa più grave sa qual è?».

Dica.

«Per crescere nel brodo di moltiplicazione, queste cellule hanno bisogno di fattori ormonali. Noi, invece, non glieli possiamo dare agli animali, sono proibiti. Ecco, la carne naturale non ha ormoni, quella artificiale sì, e in più devono essere rimossi».

Ma la carne naturale viene da animali cresciuti anche con gli ormoni, no?

«Gli ormoni come promotori di crescita sono vietati da oltre cinquant’anni per i bovini e dal 1981 per tutte le altre specie allevate. Gli animali producono i loro ormoni naturalmente, come noi d’altronde, è il processo della vita. Li producono e, come tutti gli altri scarti del lavoro cellulare, li metabolizzano e li espellono. Dalla carne artificiale invece devono essere rimossi».

Cosa significa?

«Significa che devono essere lavati via man mano che le cellule messe a coltura lavorano e si moltiplicano. Ecco, se nell’animale questi scarti vengono metabolizzati ed espulsi tramite il ciclo del sangue, il sistema linfatico eccetera, nei bioreattori in cui viene prodotta la carne li si deve rimuovere. Però nessuno sa ancora quanti, e quali esattamente, siano questi elementi di scarto, perché dentro ci va un sacco di roba, dagli ormoni agli antimicotici, fino a pectina e antischiuma».

Il fattore ambientale, però, non è di poco conto. A sostegno della carne di laboratorio vengono richiamati i vantaggi in termini di risparmio di acqua e di riduzione delle emissioni di Co2.

«Nessun vantaggio, e porto dati concreti. Primo punto, in laboratorio tutto il processo di eliminazione degli scarti, assolutamente indispensabile, porta a emissioni da un minimo di 246 a un massimo di 1.508 di Co2 per chilo di prodotto, da 4 a 22 volte superiori alle emissioni per chilo di carne bovina allevata».

Perché?

«Perché sono processi di purificazione molto dispendiosi in termini di consumo di risorse e di impatto ambientale. Soprattutto quando si passa da colture cellulari di piccola entità, quali quelle di oggi, a reattori di grandi dimensioni previsti per la produzione in scala industriale della carne artificiale».

Sono gli allevamenti, però, a emettere grandi quantità di carbonio.

«Guardi, l’agricoltura è l’unica attività dell’uomo che, oltre a emettere carbonio, contemporaneamente lo assorbe».

Attraverso cosa?

«Il suolo, l’erba. I pascoli alberati - i nostri meriagos - sono il sistema che conserva più carbonio di tutti. Se ho animali al pascolo, è vero che emettono Co2, ma tutto il sistema ne sottrae all’ambiente molto di più».

Sì, però poi gli animali vengono rinchiusi in stalla e messi all’ingrasso.

«Ma i crediti di carbonio che hanno accumulato nella prima fase sono più che sufficienti per compensare anche le emissioni nella fase di ingrasso. Con la carne artificiale le emissioni vengono prodotte e basta».

Professore, non ritiene che alla fine sono i consumatori che decidono?

«Il punto è che, come sempre, è bene basarsi su dati scientifici. E nella scienza vale il principio di precauzione. Insomma, se vi è un potenziale pericolo di cui non conosciamo il rischio, è meglio tenerlo sotto controllo fino al momento in cui si hanno evidenze maggiori sia sulla natura del rischio che sugli effetti sulla popolazione».

E allora perché è contento di una legge che ostacola la ricerca?

«Nessuno dice di non fare ricerca. Anzi, la si faccia per capire gli effetti di questa carne sulla salute umana. Ma per il momento, finché non siamo sicuri che in laboratorio abbiamo ottenuto un prodotto veramente salubre, è bene usare il principio di precauzione».

La carne di laboratorio non è mica un farmaco.

«Ma è ancora in fase sperimentale. Nessuno sta riuscendo a produrla nelle quantità che si vorrebbero. Il punto è che dovrebbero mettere in piedi una vera industria farmaceutica, altrimenti non ce la fanno. Questo è un cibo che va valutato come un farmaco, non è un novel food. E poi, vogliamo negare la preoccupazione della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura?».

Perché è preoccupata?

«La Fao vede il rischio di una dipendenza di miliardi di persone da pochissime centrali di capitali che investono sulle produzioni del cibo in laboratorio. È un tema che non va trascurato, perché dare in mano a pochi l’alimentazione di tutti, non vuol dire fare buona applicazione della scienza».

Piera Serusi

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