Il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, dopo aver “ignorato” le molteplici richieste provenienti dalle singole Realtà Regionali, si è premurato di sottoscrivere nel corso della notte dell’appena trascorso fine settimana l’ennesimo Dpcm contenente ulteriori ed ultimissime misure restrittive (valide dal 26 ottobre al 24 novembre 2020) conseguenti al vorticoso aumento dei contagi da Covid-19 a livello nazionale: tra le disposizioni maggiormente significative si evidenzia la chiusura alle ore 18:00 di tutti i ristoranti, i bar e le gelaterie e la previsione compensativa, in separata sede, di rapide misure di ristoro da diversi miliardi di euro per le categorie più colpite. Tutto sommato nulla di “troppo” nuovo sotto il sole dunque, ed in qualche modo purtroppo, quanto meno sul piano della strategia di governo e del persistere della condizione pandemica. Il peggio è che, in quanto cittadini, ossia in quanto persone fisiche su cui andranno a ricadere gli effetti immediati e diretti di quelle che sembrano essere, e saranno, le nuove disposizioni (salvo inasprimenti improvvisi), e nella conseguente e generale condizione di “impotenza” in cui ci ritroviamo costretti a versare, siamo talmente assuefatti a questo innaturale “ordine di cose” che quasi la notizia non fa più sensazione. E se è vero, come è vero, che lasciarsi andare a facili critiche sarebbe comunque un errore, tuttavia è altrettanto vero che parimenti sarebbe un errore forse ancor più grave “accettare” supinamente ed acriticamente ogni decisione e/o imposizione calata dall’alto. L’unica certezza è che non possiamo permetterci un nuovo lockdown. Né l’idea di un rinnovato “contenimento” forzoso, difficile da giustificare e sostenere ma pur sempre cautamente “ventilato” e temuto, può divenire il comodo escamotage per mascherare la generale inefficienza del sistema sanitario (ferme naturalmente le doverose eccezioni) di competenza regionale, e/o peggio l’incuria nel predisporne anche solo un timido rafforzamento nel corso dei mesi appena trascorsi.

Ancora oggi, infatti, e come se non bastasse, a distanza di ben duecentocinquanta giorni circa dall’inizio di quello che può essere descritto come un autentico dramma umano, l’uniformità ed il coordinamento delle decisioni e la progettualità esecutiva degli interventi specifici continuano ad apparire come una chimera, un miraggio nel deserto. Mi domando seriamente se siffatta condizione di paralisi decisionale a tutti i livelli ed inettitudine in diversi casi, in un Paese cavilloso come l’Italia delle 21 Babeli Regionali, sia ancora accettabile, specie allorquando lo schema della cieca contrapposizione ad un Governo in evidente quanto inevitabile e comprensibile, seppure in qualche modo colposa, difficoltà sia solo un mezzuccio diretto ad assicurare ai suoi diretti competitor, e non solo, una esposizione mediatica utile solo ai fini elettorali. Del resto oramai lo sappiamo: quando si sta all’opposizione si diventa sempre maestri risolutori, infallibili custodi di rimedi salvifici, salvo poi arrivare ad accomodarsi sugli scranni del potere sospinti dall’ondata disorientata di un sentimento popolare comprensibilmente “ciondolante” per collezionare, alla fine dei conti, indegne figure “magrine” idonee solamente ad instillare il rimpianto per ciò che nel bene e nel male era stato. Che triste condizione.

Povera Italia, e poveri Italiani rispetto ai quali ancora oggi si pretende “cortesemente” di richiedere, come di fatto viene richiesto, un rinnovato “sacrificio”: certo, “tutti bravi col c... degli altri”, ma guai a toccare il proprio. per dirla parafrasando un noto e vetusto proverbio romano.

La pandemia esiste, e non è certamente mia intenzione metterne in discussione l’evidente pericolosità: l’utilizzo corretto e convinto di ogni presidio sanitario raccomandatoci deve diventare una costante normalità se vogliamo difenderci dai contraccolpi del subdolo nemico invisibile. Ma se “sacrificio” deve essere, allora chi di dovere (ossia i politici tutti per intenderci), io credo umilmente ed educatamente, dovrebbe iniziare col dare il buon esempio rinunciando per solidarietà al proprio lauto compenso per tutto il periodo del richiesto “sacrificio” imposto alla popolazione e/o a parte di essa, giusto per comprenderne, anche solo in parte, il disagio e la disperazione. Ma, anche a voler prescindere dalle riflessioni che precedono, e senza per ciò stesso rinnegarle, non sarà forse superfluo rilevare come la radice del problema sia in realtà da ricercare altrove rispetto al malessere generale che pure ne costituisce l’effetto immediato e diretto, e sia piuttosto di carattere squisitamente amministrativo-territoriale se solo ci si sofferma a considerare che l’espressione significativa del successo e/o insuccesso del fenomeno oggi particolarmente accentuato del “regionalismo”, è di fatto tutto racchiuso nel maggiore e/o minore efficientismo delle politiche sanitarie che lo caratterizzano, le quali, pur tuttavia, all’esperienza pratica dei test di responsività all’impatto pandemico, si sono rivelate grosso modo incapaci di reagire. Intanto, perché le Regioni, sebbene non tutte, ma sarebbe meglio dire chi più chi meno, nel corso dei lunghi anni trascorsi, si sono “accomodate” nel ritenere di poter trarre sollecito giovamento dalle proprie competenze conquistate (ma forse non troppo) in ambito sanitario unicamente per tentare di perseguire il tortuoso percorso di rafforzamento del loro paradigma e/o contorno identitario ed affermarsi come soggetti politici a tutti gli effetti del panorama politico nazionale. Quindi, perché mentre da una parte l’attivismo, l’intraprendenza e la capacità di innovazione di alcune regioni (quelle del Nord per intenderci) hanno contribuito ad incrementare le differenze nei prototipi preparatori e nel profitto istituzionale dei sistemi sanitari regionali mandando molto spesso in tilt l’omogeneità (o presunta tale) del Servizio Sanitario Nazionale, dall’altra, l’incapacità gestionale di altre regioni (generalmente quelle del centro-sud isole comprese), ha solamente contribuito ad innescare il processo inverso della regressione e del progressivo allontanamento dagli standard di accettabile efficienza registrati a livello nazionale. Infine, perché siffatti descritti meccanismi hanno finito col creare una tale difformità nella potenzialità amministrativa e di gestione delle diverse regioni da rendere impossibile il ripristino del giusto contrappeso fra il postulato di universalismo bilanciato del Servizio Sanitario Nazionale e la celebrazione esasperata delle disparità nelle metodologie di governo decentrato. Detto altrimenti, e riportando i concetti all’attualità specifica, nella gran parte dei casi, considerate le disfunzioni gestionali esistenti a livello territoriale locale, sembrerebbe essere venuta meno la capacità di definire percorsi assistenziali utili al monitoraggio della curva pandemica nel lungo periodo in funzione preventiva, oltre che la ferma volontà di procedere ad un rafforzamento specifico del sistema in vista di questa seconda ondata di Covid-19 da molti prevista e da troppi sottovalutata. Non mi stupisce, pertanto, se oggi ci ritroviamo costretti a pagarne le conseguenze. Ma allora mi domando, considerate le difformità esistenti tra le varie realtà regionali italiane, ha ancora un senso parlare di federalismo sanitario allorquando quest’ultimo si sia rivelato un vero e proprio fallimento per la salute? Perché nel corso dei mesi appena trascorsi, quando ancora in qualche modo si sarebbe potuto intervenire, le diverse sanità locali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono state poste in condizione di conseguire il doveroso rafforzamento? Su chi deve ricadere la responsabilità per questo stato di cose? E’ giusto che sia sempre il cittadino a dover scontare gli effetti negativi legati all’inefficienza dei governi locali e di quello nazionale?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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