Regione Sardegna - Stato italiano: quando il conflitto di competenza diventa strumento di governo indiretto del territorio
“Riprendiamoci la nostra autonomia o abbandoniamola per sempre”Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Ma in Sardegna, comanda Roma o comanda Cagliari? E Se non comandano né Roma né Cagliari, allora chi comanda davvero?
Non paiano interrogativi peregrini: malgrado la loro connaturale estemporaneità potrebbero costituire la chiave di lettura, probabilmente banale ma realistica, di una svolta necessaria in ordine alla quale non è accettabile arrivare impreparati.
Non più tardi di qualche giorno fa, leggevo, infatti, tra le tante notizie, quella della ennesima impugnazione, di ben due Leggi licenziate dal Consiglio Regionale della Regione Sardegna il 30 marzo ultimo scorso da parte del Consiglio dei Ministri e dietro sollecitazione del Ministro per gli Affari Generali Mariastella Gelmini: quella per il sostegno e la promozione della cannabis sativa, e quella che estende da tre a quattro il numero massimo dei mandati possibili consentiti a Sindaci di Comuni fino a tremila abitanti, e da due a tre quelli a Sindaci di centri da tre a cinquemila abitanti. Niente da dire sul punto, se solo non fosse che le motivazioni addotte sarebbero per lo più riconducibili alla violazione dell’articolo 117 della Costituzione, secondo comma, lettere l) e p), il quale definisce puntualmente gli ambiti di reciproca competenza legislativa delle Regioni e dello Stato, e se solo non fosse che l’impugnativa inerente l’estensione del mandato dei Sindaci, sulla cui opportunità si potrebbe comunque discutere a lungo considerate le implicazioni di carattere strumentale ad essa connesse, parrebbe “pervenuta” a ritmo di un tempismo incalzante proprio a ridosso della consultazione elettorale quasi a volerne condizionare gli esiti.
Intendiamoci: lo spirito polemico non ha nulla a che vedere con il merito dei ricorsi (probabilmente addirittura fondati in ragione della dicitura specifica delle richiamate lettere “l” e “p” dell’articolo di legge richiamato), non potendone apprezzare direttamente e compiutamente la redazione e il contenuto, quanto, piuttosto, con il metodo, ispirato ad una evidente concezione statalista ed accentratrice protesa a “riconoscere”, quasi a priori, un “eccesso” rispetto alle competenze attribuite dallo Statuto, rimasto, invero, e purtroppo per noi, in molti casi inattuato dalle nostre dirigenze politiche succedutesi negli anni al governo del territorio.
Mi domando, piuttosto, ed è questo il senso del mio intervento, che fine abbia fatto quella “Repubblica delle Autonomie, articolata su diversi livelli di governo dotati di autonomia costituzionalmente garantita”, posto che, a quanto pare, parremo essere ancora lontani, e forse non è mai stato questo l’intento del legislatore del 2001, dal poter discorrere nei termini di una totale equiparazione fra gli enti locali e tra questi ultimi e lo Stato. Tanto più allorquando si consideri che sebbene la nuova formulazione dell’articolo 117 della Costituzione sia stata concepita con la finalità precipua di garantire una maggiore efficienza alla azione dei poteri pubblici mediante la cosiddetta allocazione delle funzioni sulla scorta del principio di sussidiarietà verticale, tuttavia, l’obiettivo, si è presentato fin da subito, e si prospetta oggi, in tutta la sua lontananza pratica siccome, di fatto, parrebbe non consentire alcuna deroga al rigido riparto di competenze e parrebbe addirittura “tradire” la competenza regionale attraverso l’utilizzo strumentale del controllo di ragionevolezza e proporzionalità.
Ebbene. Che l’attuazione del novellato articolo 117 della Costituzione sia da sempre complessa e discutibile, non paiono esservi dubbi, soprattutto in un ambito assai delicato quale quello del riparto di competenze tra Stato e Regioni. Che sia necessario, parimenti e prioritariamente, avviare un nuovo processo di revisione costituzionale appare oggi in tutta la sua necessarietà.
Intanto, perché, checché se ne voglia dire, la stessa Corte Costituzionale, sollecitata sul punto innumerevoli volte, tradisce una certa difficoltà interpretativo-ermeneutica a rinvenire il punto di incontro tra la legge statale e la legge regionale non tanto e non solo nelle materie di legislazione concorrente, ma anche e soprattutto tra leggi attribuite in via esclusiva alla competenza dello Stato e altre materie regionali. Quindi, perché, mancando alla base forme valide di “compensazione politico-istituzionale” utili a dirimere in via preventiva le controversie insorgende, inevitabilmente si finisce per affidare al “sommo giudizio” delle toghe, e paradossalmente, lo stesso governo del territorio affidandogli di fatto un ruolo che parrebbe oltre-passare le specifiche funzioni giurisdizionali promuovendo a regola del giudizio un “intervento” che dovrebbe restare relegato allo stato della mera eventualità e della residualità.
Infine, perché, purtroppo, sembra oggi essere attribuito alla Corte Costituzionale il compito di sopperire alle innumerevoli difficoltà operative del Parlamento (completamente esautorato del suo ruolo) al quale solo sarebbe attribuito, in realtà, il compito di individuare la corretta linea di demarcazione delle funzioni nell’ambito della attribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. Se questo, dunque, non è esercizio politico del potere giudiziario, legittimato e consentito dalla stessa classe dirigente incapace di governare financo se stessa, allora ditemi voi cos’altro è.
La gestione, per così dire “in forma cooperativa”, del riparto delle competenze tra i due livelli di governo del territorio non può divenire, e purtroppo parrebbe esserlo divenuta, il terreno privilegiato del potere di intervento dell’Organo Giudiziario siccome, così consentendo, si finisce per avvalorare per fatti concludenti un regime di condotta finalizzato ad escludere il potere legislativo di carattere regionale dall’effettiva gestione del potere che gli sarebbe propria proprio per l’atteggiamento di connaturale deferenza dell’Organo Giudiziario medesimo nei confronti del decisore politico romano, giustificato dall’esigenza di non destabilizzare l’assetto istituzionale voluto e garantito, sia pure non si veda in molti casi come, da un legislatore statale divenuto sempre più approssimativo ed incoerente.
È questo che vogliamo? Se così è non lamentiamoci delle conseguenze. Se così è, smettiamo di ostinarci nel voler pretendere di risolvere dall’esterno, e paradossalmente, i “disservizi” riconnessi all’esercizio dei nostri principi autonomistici sol per l’incapacità espressa dal Governo Locale anche solo nel far rispettare la propria Specialità.
Laddove non si fosse capito, e ne dubito, la Regione Sardegna parrebbe continuare a voler “galleggiare” nel convenzionalismo sottaciuto, ma in fondo piuttosto comodo, della etero-referenzialità, consentendo di fatto, ai Poteri Altri, di esercitare in loco il Governo del territorio. Riprendiamoci la nostra autonomia o abbandoniamola per sempre.
Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro