Media e populismo giudiziario
Se l’informazione diventa spettacolo
Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
“La sentenza non viene ad un tratto, è il processo che a poco a poco si trasforma in sentenza”, (Franz Kafka, Il Processo, 1925). Sembra un percorso scontato, quasi naturale: eppure il più delle volte, complici, probabilmente loro malgrado, i “media” e i social, potrebbe non esserlo, soprattutto allorquando si considerino le vicende di cronaca giudiziaria più o meno recente (a titolo esemplificativo, i casi “Grillo” e “Pipitone”) e i tentativi di ricostruzione a vario titolo proposti all’attenzione generale. Esiste un distacco profondo, e di certo incolmabile, tra la “verità” offerta dalle narrazioni più o meno articolate fornite dai mezzi di informazione, la “verità” cui si è pervenuti, e si perviene e/o si dovrebbe pervenire, attraverso le indagini e la successiva, quanto eventuale, celebrazione del processo penale privo di contaminazioni anche mediatiche, e la “verità” naturalistica (talvolta destinata a restare oscura nel suo dipanarsi nonostante tutto), le quali tutte, evidentemente, appaiono non solo come qualitativamente differenti, ma addirittura inidonee per loro stessa natura a prestarsi, in qualsivoglia modo, e perlomeno in linea di principio, ad essere confuse e/o reciprocamente fraintese. Intendiamoci: siffatte “verità”, paradossalmente, parrebbero essere, come nei fatti sono, nei loro rispettivi ambiti, tutte parimenti necessarie, su differenti livelli e piani di indagine, alla esplicazione dei principi democratici settoriali di volta in volta emergenti, e, in qualche misura, all’accertamento di quelle stesse “verità”, tuttavia, lo sono unicamente nella misura in cui riescano a conservare ruoli e funzioni nettante distinti ed in alcun modo inter comunicanti e/o a vario titolo interferenti.
Quando, invece, per converso, e come talvolta, inevitabilmente, sembra accadere, l’informazione, appare trascendere anche inconsapevolmente, degenerandola, la sua funzione sociale di “conoscenza/apprensione/diffusione” di un fatto storico per confonderla con quella tipicamente investigativo/giudiziaria di “ricerca” degli elementi generatori di quel medesimo “fatto” per come esso semplicemente appare, allora, quella stessa “informazione” favorisce l’innescarsi di un meccanismo pericolosissimo sul piano psicologico del “sentire” generale comunemente definito con l’espressione sintetica di “processo mediatico” il quale, a sua volta, per il suo carattere inevitabilmente suggestivo ed avvincente, si presta a “sostituire” idealmente e concretamente quello giudiziario vero e proprio considerato, nell’immaginario comune, come percorso troppo lento ed obsoleto nel suo dipanarsi per poter conquistare e/o conservare la credibilità necessaria sul piano sociale. In buona sostanza, da qualche tempo a questa parte, ho come l’impressione che oggi, più di ieri, si avverta l’esigenza di riscoprire la sacramentalità del “procedimento” e del “processo”, e parimenti dei principi cardine che li governano: a cominciare da quello comunemente noto come “presunzione di non colpevolezza”, assai spesso dimenticato siccome travolto, sembrerebbe, dall’esigenza insaziabile di rinvenire, in assenza ed in dispregio di qualsivoglia “garanzia” costituzionale che dovrebbe invece sussistere ed operare a favore di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti, un potenziale colpevole (ma sarebbe meglio dire, un agnello sacrificale) nel minor tempo possibile da immolare sull’altare di una verità e di una giustizia singolarmente intese nel loro significato inevitabilmente degenerativo.
La celerità prima della verità, insomma, all’interno di un meccanismo perverso in cui tutti sembrano essere titolari del diritto sacrosanto alla libertà di espressione eccezion fatta per i soggetti direttamente coinvolti nelle vicende di volta in volta trattate. Qualcosa, e forse più che qualcosa, sembra non andare per il giusto verso. E manca, da parte della collettività, e prima ancora probabilmente delle Istituzioni, spesso influenzate dagli umori della politica prevalente, la consapevolezza necessaria ed utile ad invertire siffatto meccanismo degenerativo. Il “populismo”, in buona sostanza, e per intenderci con maggiore immediatezza, è purtroppo solo uno dei molteplici aspetti della crisi della democrazia, ed il fatto che si rifletta anche e proprio sul sistema “giudiziario” divenendone quasi una sua struttura operativa, è sintomatico di un malessere profondamente radicato non solo all’interno delle Istituzioni di riferimento, ma anche, e di conseguenza, all’interno di una società ove il confine tra manipolazione, strumentalizzazione ed informazione sembra essere percepito in misura troppo gravemente deficitaria per non correre il rischio di restarne tutti travolti. E non si può nutrire l’illusione di indagare e comprendere le relazioni esistenti tra “mezzi di informazione” e “diritto”, e/o la misura in cui i primi sono potenzialmente capaci di influire sulla attività legislativa giudiziaria, e giudiziaria in senso proprio, prescindendo totalmente dalle riflessioni testè proposte perché, che piaccia oppure no, quegli stessi mezzi di comunicazione riescono, gioco forza, ad influenzare, in vario modo, e forse inconsapevolmente, anche l’applicazione stessa della legge penale nelle aule di giustizia divenendo prova tangibile di un percorso paradossale in cui il diritto, e la sua espressione concreta, ossia il processo, appaiono come direttamente ed indirettamente dipendenti, in un rapporto paradossale a parti invertite, dagli umori dei consociati per come ingenerati dall’informazione. Proprio su questo paradosso sarebbe utile interrogarsi: perché sarebbe fin troppo riduttivo ricercare la responsabilità esclusiva, e/o prevalente, di una tale stortura solo in capo a chi opera nel settore della comunicazione; e perché la certezza del giudizio sarebbe comunque monca e deficitaria in assenza di conservazione ed applicazione di un apparato di garanzie e di salvaguardia dei diritti dei soggetti di volta in volta indagati, di quelli imputati e delle stesse persone offese di volta in volta nel complesso coinvolti, a prescindere dalla circostanza che si tratti o meno di persone note e/o politicamente influenti, oppure di gente comune. Intanto, perchè l’attività ricostruttiva dei “media”, per quanto talvolta pregevole, appare idonea ad ingenerare comunque nella generalità dei consociati distorsioni interpretative sul piano squisitamente contenutistico.
Quindi, perché l’assimilazione emotiva di quelle interpretazioni soggettive talvolta distorte dei fenomeni rappresentati dai mezzi di informazione contribuisce a creare, nel sentire collettivo, l’immagine stessa del colpevole, o presunto tale, chiunque esso/a sia, che se anche assolto/a, in un secondo momento, sul piano giuridico processuale, continua a patire i riflessi tremendi della cultura del sospetto, quasi che il sensazionalismo istintivo della massa possa essere strumento di valutazione assai più utile delle risultanze di causa maturate a seguito di un contraddittorio dibattimentale. Infine, perché, all’evidenza, l’intrecciarsi di siffatti meccanismi, potrebbe addirittura incidere indirettamente, quanto inevitabilmente, spesse volte condizionandola, sulla stessa attività dell’organo giudicante, pregiudicandone, potenzialmente, l’imparzialità e la terzietà. La conseguenza? E’ presto detta: la legittimazione dell’erosione del concetto stesso di “verità”, la quale smarrisce il suo significato monolitico ed unitario per assumerne di diversi tutti potenzialmente, quanto vanamente, alternativamente validi. L’esigenza di una riforma che riporti sul solco della costituzionalità e del rispetto delle “garanzie” il “procedimento” ed il “processo”, appare allora oltremodo necessaria: è questione di civiltà giuridica e da essa non possiamo più prescindere nel migliore interesse di tutte le parti che a vario titolo si trovino ad essere di volta in volta coinvolte.
Giuseppina Di Salvatore
(Avvocato – Nuoro)