Lo scorso 16 giugno la Città Metropolitana di Cagliari, chiamata alle urne per la scelta del nuovo Primo Cittadino, ha espresso la sua preferenza, sia pure con uno scarto minimo di voti, per il candidato di centrodestra, uscito dalle file di Fratelli d’Italia, Paolo Truzzu.

Niente da fare per la sua agguerritissima e preparata rivale di centrosinistra Francesca Ghirra, la quale ha dovuto, suo malgrado, farsene una sacrosanta ragione. Quindi, dopo ben otto anni di dominio della sinistra, il nostro capoluogo ha deciso di cambiare colore. Ma è stata solo questione di merito oppure solo una antipatica questione di genere?

Se il diretto competitor di Paolo Truzzu fosse stato Massimo Zedda l’esito sarebbe stato lo stesso? Ed ancora: in che modo la politica italiana, locale e nazionale, considera oggi la donna? La politica italiana, malgrado l’apparente presenza numerica femminile, è ancora fortemente maschilista?

Questi sono gli interrogativi sobbalzati alla mia mente all’indomani della votazione. E debbo dire che, nel cercare di darvi una risposta ho dovuto io stessa fare i conti col mio essere donna, considerata per ciò stesso ed a prescindere come vaso di cristallo, in mezzo ad un mondo di uomini, da sempre concepiti nell’immaginario collettivo, come vasi di ferro.

Sono pertanto giunta alla conclusione che, per un verso, a prescindere dalle indubbie capacità del candidato di centrodestra, se a competere fosse stato Massimo Zedda, al 99,9 per cento, il suo dominio non sarebbe cessato e, per altro verso, e di conseguenza, che in fondo in fondo proprio il “genere” (espressione che io personalmente detesto ritenendola riduttiva ed inappropriata) di appartenenza della sua “sostituta”, sinceramente bravissima e combattiva, abbia purtroppo ingiustamente giocato un ruolo fatalmente decisivo.

Diciamocela tutta fino in fondo: Cagliari, come tante altre realtà, non era affatto pronta ad attribuire il ruolo di guida ad un sindaco (non dirò mai sindaca, espressione che trovo abominevole) donna. Ciò significa che ancora oggi, nonostante le battaglie, i piccoli riconoscimenti, le leggi, la donna, salvo rare eccezioni, continua a restare ai margini della vita politica rappresentando piuttosto, quando attivamente impegnata, un chiaro elemento di imbarazzo e forse anche di fastidio. Sembrava fosse cambiato tutto, ma a me pare che non sia cambiato nulla. Ho ancora l’impressione che far posto alla donna nella vita politica del paese risponda più ad una esigenza di “accaparramento del voto” di una certa buona fetta della popolazione votante (quella appunto femminile) piuttosto che ad un sincero riconoscimento del merito personale di ciascuna.

Per quanto la mia mente voglia rifiutare l’idea, debbo riconoscere che, ancora oggi, uno dei tanti mali della nostra amata Italia sia proprio il maschilismo, quel convincimento ancestrale e radicato che solo l’uomo possa offrire idonee garanzie di forza, di persuasione, e quindi di autentico appeal mediatico e sociale. Detto altrimenti, è ancora la sola virilità, o quanto meno la sua ostentazione portata all’estremo, anche svincolata da ogni valutazione sul merito, a farla da padrone ed il nostro Ministro dell’Interno ne rappresenta, a mio avviso, un chiaro esempio.

Con questo non voglio certo nascondere la testa sotto la sabbia e piangere sulla circostanza di nascere donne. Proprio no, me ne guardo bene. Solo credo che proprio come donne dovremo cercare di imporre la nostra capacità dialettica e fattuale con maggiore fermezza e senza timore di perdere la nostra femminilità, che costituisce invece un eccellente valore aggiunto, se davvero vogliamo convertire questa mentalità di comodo su cui la generalità delle persone si è tristemente appiattita.

Per questo ritengo, come ho sempre fermamente ritenuto, che l’affermazione del meccanismo delle cc.dd. quote rosa (legge n. 120/2011), il quale impone di introdurre obbligatoriamente un certo numero di presenze femminili nei posti di prestigio e di comando, ed è, negli intenti, diretto a ridurre quella che viene definita la discriminazione di genere, abbia rappresentato in realtà uno sfregio al nostro valore.

Intanto, perché diversamente da quanto appare, sebbene con siffatte quote sembrerebbe considerarsi raggiunta quella parità formale tra uomo e donna, altrettanto non può dirsi accaduto sul piano della parità sostanziale siccome sebbene le ultime legislature siano state caratterizzate da una amplissima componente femminile, tuttavia, la ridetta componente ha sempre avuto, di fatto, un peso politico minimale.

Quindi, perché certamente, non è attraverso una gentile concessione del legislatore, che ha più il sapore del “contentino” finalizzato alla conquista di una fetta importante dell’elettorato, che noi donne riusciremo davvero a sfondare quello che viene definito il Glass Ceiling, ovvero soffitto di vetro, barriera impercettibile, che ci impedisce di emergere e di conquistare le posizioni dominanti.

Poi perché, questo meccanismo, volere volare, ha indubbi riflessi negativi per quanto concerne il profilo meritocratico siccome il solo fatto di dover riservare per legge un certo numero di seggi alle donne costituisce piuttosto, a mio modo di pensare, un ulteriore ed offensivo elemento di discriminazione giacchè, il più delle volte, in concreto, non si viene scelte per le particolari capacità e competenze, ma solo ed unicamente per riempire una quota di genere e col rischio, in tal modo, di costituire anche un fattore di debolezza delle stesse liste elettorali, dovendo essere obbligatoriamente preferite a colleghi uomini che magari hanno maggiori chance di vittoria.

Infine, perché le quote rosa alla fine dei conti finiscono per tradire proprio quella che era la loro finalità, ossia il conseguimento pieno ed effettivo del principio delle pari opportunità svantaggiando paradossalmente gli uomini siccome presupponenti, ed in ciò chiaramente errando, che una certa percentuale di posti di prestigio non venga affatto attribuita per il merito o per la particolare competenza in uno specifico settore, ma solo, appunto, per il genere di appartenenza, svilendo così ancora di più, il valore della donna in quanto tale: ed in questo governo giallo verde abbiamo svariati esempi di donne sbagliate (perché inserite in ruoli che non le valorizzano per non essere di loro competenza) nel posto giusto.

Concludo dicendo che la parità di genere, se così la vogliamo proprio chiamare, la dobbiamo guadagnare solo sul campo e non attraverso un inutile pezzo di carta che in fondo ci rende ancora una volta solo pedine di un sistema fondamentalmente ampiamente maschile e maschilista: non siamo fatte per fare numero ma siamo fatte per essere il numero della differenza. Lo dico senza timore di smentita: la presenza delle donne nelle stanze del potere è fattore indiscutibile di miglioramento nella qualità della politica. Quindi conquistiamoci il potere senza dover partire da una condizione di privilegio, perchè solo così otterremo una vera ed autentica parità sostanziale col genere maschile.

La politica può e deve essere davvero donna.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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