Si avvicinano le urne e si torna a discutere di autonomia differenziata. Solo qualche giorno fa il Senato ha respinto le cosiddette “pregiudiziali” avanzate dalle opposizioni. Il disegno di legge Calderoli, se considerato anche solo sul piano del dibattito politico, rappresenta un punto di frattura ideologica, e non solo, di non di non scarso rilievo. La approvazione di una riforma di tal fatta avrebbe dovuto, quanto meno, essere preceduta da un referendum popolare idoneo a compulsare, saggiandola, la volontà degli italiani visto e considerato che il definitivo via libera a siffatto progetto si rifletterà in maniera importante sulla quotidianità della popolazione tutta.

Stando a quanto si apprende, gli emendamenti di modifica proposti da Fratelli d’Italia sarebbero tendenzialmente diretti a comprimere gli effetti compromissori della approvanda riforma. Ma, parrebbe ad una prima valutazione, per quanto in potenza finalizzati ad ottenere un aumento delle risorse per tutte quelle Regioni che non avessero richiesto la Autonomia al momento della approvazione del provvedimento contenente i Livelli essenziali di prestazione, quegli stessi emendamenti, in atto, non sembrerebbero in grado di offrire garanzie in tal senso. Perlomeno, all’attualità, parrebbe difficile sostenerlo. Soprattutto allorquando, il summenzionato disegno di legge Calderoli parrebbe omettere ogni e qualsivoglia riflessione in merito al regionalismo differenziato ragguagliandolo sul piano differenziale con i principi di autonomia statutaria delle Regioni nel loro essere “speciali” e/o invece “ordinarie”. E, probabilmente, la circostanza non pare potersi affatto trascurare.

Le condizioni di particolare autonomia, riconosciute in capo alle Regioni a Statuto Speciale, innegabilmente, si qualificano per porsi su un piano di deroga rispetto ad un regime di cosiddetto diritto comune, siccome la autonomia riconosciuta a siffatte realtà finisce necessariamente per abbracciare differenti ambiti di intervento, concernenti, di volta in volta, tanto l'organizzazione interna della Regione che ne fosse interessata, quanto il riparto delle competenze, come pure lo spazio involgente i rapporti tra la Regione stessa e lo Stato e il regime finanziario. Tanto dovrebbe ritenersi sufficiente ad esprimere la massima prudenza nel voler intervenire su un articolato organizzativo tanto complesso, e così tanto difficile da condurre già alle condizioni date, che in conseguenza del ddl Calderoli potrebbe pure subire una battuta di arresto.

Intanto, perché, anche a tutto voler considerare e/o concedere, la “specialità” che caratterizza financo la Regione Sardegna, non può in alcun modo essere ritenuta tale unicamente sul profilo meramente formale, siccome trattasi di realtà in qualche maniera certamente auto-referenziale, ma comunque riconosciuta come tale dalla stessa Carta Costituzionale. Quindi, perché, rappresentando il ddl Calderoli, l’ulteriore progetto di riforma alla Carta Costituzionale, al di là di quelli rispettivamente del 1999 e poi del 2001 in materia di regionalismo, non parrebbero sussistere elementi a tal punto stringenti per ritenere che lo stesso non possa concludersi con un nulla di fatto. La bocciatura referendaria del progetto Renzi-Boschi del 2016 pare porsi come antecedente logico giuridico di rilievo in argomento, né si dovrebbe trascurare se si volesse realmente procedere all’insegna della massima cautela. Infine, perché è sempre e doverosamente l’organigramma statale ad essere considerato punto nevralgico di scambio decisionale ad ogni livello. Intendiamoci su questo ultimo punto più precisamente: l’esigenza centralizzante non dovrebbe essere vissuta alla stregua di un vulnus alla esigenza, parimenti apprezzabile, di modernizzazione e di decentramento (se di tanto dovesse volersi discutere), siccome non sembrerebbe affatto detto che il secondo possa avere una migliore riuscita della prima dovendosi sempre e comunque fare i conti con le singole e variegate realtà territoriali e con le loro specificità che, in un Paese quale sembra essere l’Italia, sono talmente tante e tali che il vero traguardo sarebbe semmai rappresentato dal raggiungimento di una uniformità gestionale idonea a garantire analoghi livelli di crescita dal nord al sud. Tanto più, quando, proprio la realtà italiana, per l’appunto, parrebbe costituire un esempio importante in tal senso: a fronte di realtà territoriali estremamente dinamiche e fattive, parrebbero esservene altre che, invece, tali non lo sono o non lo sono ancora, conseguendone che unicamente un modello di solidarismo fiscale forte potrebbe garantirne il pieno ed armonico sviluppo finalizzato al raggiungimento di livelli apprezzabili di governo anche decentrato con il trascorrere del tempo.

Nel momento contingente la riforma che si intende perseguire non pare potersi porre in termini di utilità posto che sarebbe probabilmente inopportuno pensare di poter procedere a livelli differenziali di sviluppo territoriale. Il Paese necessita di poter fruire di livelli di crescita conformi e uniformi se lo si vuole portare a livelli importanti di competitività anche in ambito sovranazionale. Occorrerebbe piuttosto procedere nel senso della progressiva riduzione dei particolarismi puntando a livelli omogenei di crescita.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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