Winfried Sebald, lo scrittore tedesco noto soprattutto per i suoi capolavori “Gli anelli di Saturno” e “Austerlitz”, affronta col suo libro “Storia naturale della distruzione” un argomento tabù in Germania, ovvero il silenzio cronachistico e letterario intervenuto per oltre mezzo secolo sui bombardamenti angloamericani sulle città tedesche, e sulle stragi di civili continuate anche dopo la fine della guerra. Oltre 700mila tedeschi morirono di fame, stenti e malattie dopo la capitolazione della Germania. In quanto colpevole di un passato vergognoso e pesante come un macigno, il popolo tedesco doveva tacere il dolore patito da milioni di civili, e a questo dettato si attenne anche la letteratura. Solo Sebald, nel secolo attuale, ha osato toccare questo nervo scoperto componendo una storia della distruzione in cui il meccanismo della guerra non risparmia niente e nessuno.

La rimozione tedesca, collettiva e individuale, è stata peraltro funzionale a un obiettivo di sopravvivenza, quello di rivolgere ogni energia e sforzo al futuro, per concentrarsi quindi nell’immane compito della ricostruzione. Gli artisti possono essere muti e la letteratura assente, ma è indiscutibile la straordinaria e quasi incredibile forza che i tedeschi hanno trasfuso nella ricostruzione della Germania e della loro immagine. C’è chi dice che questa energia inesauribile derivi proprio dalle centinaia di migliaia di cadaveri murati nelle fondamenta delle nuove città. Ma anche queste interpretazioni non hanno trovato eco perché ancora rivolte al passato – peccato mortale – e non al futuro.

La ricostruzione a partire dalle macerie e dalla distruzione di qualsiasi infrastruttura ha riguardato peraltro tutta l’Europa e una gran parte dell’Asia. Ha risparmiato invece la Sardegna, “l’unica regione d’Italia, e forse d’Europa, almeno dell’Europa coinvolta nel conflitto, in cui non è passata la guerra guerreggiata, e che non è stata calpestata dalle avanzate e dai disordinati riflussi degli eserciti combattenti né dalla guerra civile” (cit. dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia). Non c’è stata da noi nessuna immane devastazione, nessuna carneficina se non come conseguenza dei bombardamenti alleati essenzialmente su Cagliari. La gente non è morta di fame o di stenti dopo la fine della guerra, ci siamo riaffacciati alla pace come privilegiati nei confronti del resto d’Italia e d’Europa.

Eppure, quello che storicamente colpisce è proprio la mancanza di energia e di spirito vivo che si è impadronita della Sardegna nel dopoguerra, di voglia di guardare al futuro al di là delle lotte/pastoie politiche. La consapevolezza di sé è esistita solo in termini di lamentazione: la povertà della Sardegna – seppur grande – veniva descritta come assoluta, “corale”, “unica nel mondo opulento e sviluppato” (si vedano gli scritti di Mannironi e Polano), una visione figlia di vittimismo e autocentrismo, ignorante delle condizioni stesse dell’intera Europa.

Conseguente alla lamentazione è stata la richiesta di soccorso, di aiuto esterno, una specie di rimborso dovuto per i torti subiti. L’assistenzialismo, non il rimboccarsi le maniche, è stato da quel momento e sino ad oggi la domanda-risposta a ogni problema. Il famoso piano di Rinascita della Sardegna ha avuto infatti una abnorme gestazione (1950-1962), dovuta solo ai limiti di capacità progettuali e realizzatrici della classe dirigente sarda, e una consequenziale fallimentare attuazione.

Su un terreno di miseria culturale si sono calati gli uccelli politici che hanno lottato epicamente l’un contro l’altro attorno a concetti come autonomia, riformismo, organizzazione economica, statuto sardo, piani organici, ecc., perdendo tempo e occasioni storiche come ad esempio il piano della Fondazione Rockfeller per la Sardegna, incredibilmente rifiutato. Il racconto di questo fondamentale periodo storico – prodromo di tanti guasti diffusi che ancora ci affliggono – è spettato però, come capita, a chi aveva provocato il danno di fondo.

Non esiste pertanto una narrazione che diventi coscienza, lezione, comportamento e dunque cultura, e si continua imperterriti da una parte a chiedere come uccellini nel nido, dall’altra a invocare ulteriore autonomia, e ancora a incensare e sopportare una classe politica che di elezione in elezione percorre una scala in discesa di mediocrità e inadeguatezza. È un caso che siamo ultimi in Europa?

Ciriaco Offeddu – Manager e scrittore

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