L a questione vaccini si sta complicando mentre il tessuto economico-sociale del Paese (figuriamoci quello della nostra isola) si sta lacerando in maniera irreparabile. Due recenti notizie hanno minato la nostra fiducia di vedere presto la fine del tunnel pandemia. Gli Stati Uniti hanno sospeso il vaccino prodotto da Johnson&Johnson per alcuni casi di trombosi; la Danimarca ha bloccato in via definitiva e senza prove d'appello l'AstraZeneca, per lo stesso motivo. Il Covid-19 corre, il piano vaccinale europeo arranca.

L o stop al prodotto di Johnson&Johnson, anche se limitato (si spera) nel tempo, non sarà privo di conseguenze. L'Italia ne attendeva 27 milioni di dosi, una manna dal cielo considerando che questo siero può essere conservato a una temperatura compresa tra i 2 e gli 8 gradi centigradi. Sarebbe sufficiente il nostro frigorifero di casa, per farla breve. Inoltre, è un vaccino monodose (“one shoot”, amano dire gli americani), con vantaggi che sarebbe banale ricordare tanto sono evidenti.

Sono misure prudenziali, segno che la vigilanza farmaceutica funziona. Si pensi che i casi di “reazione avversa” al siero americano è di una su un milione di dosi inoculate e che si è registrato un decesso ogni due milioni. Ogni giorno che passa, si registrano cinquemila morti. Quanti sarebbero sopravvissuti se avessero ricevuto in tempo il vaccino?

Le reazioni indesiderate gravi, quindi, sono un problema minimo, rispetto alla enorme incapacità dell'Unione europea di attrezzarsi a sostenere la più imponente campagna vaccinale della storia dell'uomo. Per prima cosa, ha stipulato contratti “scritti con i piedi”, direbbero le maestre di un tempo, che hanno esposto l'Europa alle bizze delle case farmaceutiche. Poi, i governanti non hanno pensato per tempo a imporre la cessione dei brevetti (una misura eccezionale che la legislazione consente in caso di pandemia) o, quanto meno, la concessione di produzione su licenza negli stabilimenti europei. L'obiezione a questo proposito è sempre la solita: occorrono almeno sei mesi per attrezzare i laboratori. Bastava pensarci nell'agosto scorso (quando già si annunciava l'avvento dei primi vaccini entro il 2020) per farsi trovare pronti. Ah, già, per farlo sarebbero serviti governanti lungimiranti, proprio quelli che l'Italia e l'Europa non hanno.

Soluzioni? Ci sono ma, come ha sottolineato Matteo Bassetti, infettivologo del San Martino di Genova, «serve coraggio». Il coraggio di reperire i vaccini sul mercato internazionale. «Ci sono centinaia di milioni di dosi disponibili», dice sempre Bassetti. In India, in Australia e non solo. Certo, costano di più perché sono vendute a prezzo di mercato. Ma l'Italia viaggia al ritmo di quattrocento morti al giorno, sembra un buon motivo per spendere dei soldi. L'Italia si liberi dei laccioli dell'Unione europea, è uno Stato sovrano che deve avere a cuore la salute dei suoi cittadini, non può vincolarsi a burocrati europei reduci da una pessima prova sui contratti-capestro con le “Big Pharma”.

“Report” l'altro giorno ha messo in onda un impeccabile servizio nello stabilimento russo dove si produce lo Sputnik. Si è venuto a sapere che l'Ema, l'Ente europeo di controllo sui farmaci, ha programmato la visita nel laboratorio russo (passo necessario per l'approvazione del preparato) alla fine di maggio. Con molta e ingiustificata calma. L'Ema se la prende comoda (e non è vero che non ha tutta la documentazione necessaria) perché sa bene che “arrendersi” allo Sputnik sarebbe uno smacco. C'è di mezzo la geopolitica, certo, ma - mi pare - anche la salute, anzi, la vita delle persone. Mentre Natascia Balducci, titolare di un agriturismo di Forlì, racconta: «Sono rimasta cinque giorni senz'acqua per bollette che non ho potuto pagare e al freddo perché si era esaurito il gas. Ho dovuto vendere l'oro che mia figlia aveva ricevuto in dono per i suoi 18 anni. In un anno ho ricevuto un ristoro di cinquemila euro. Ho riaperto il locale, perché l'alternativa è morire di fame».

IVAN PAONE
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