L a spesa pubblica nei prossimi anni oscillerà fra il 52,3 e il 59,5 per cento del Pil. Sono numeri, ha scritto Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, “non esattamente da austerità neoliberista”. Il giornalista del quotidiano confindustriale ha notato, giustamente, che si tratta di incrementi ben più alti di quelli che sarebbero nell’ordine delle cose, per così dire, in ragione “dell’accoppiata di crescita e inflazione sul Pil nominale”. L’aumento della spesa è trainato da pensioni e interessi sul debito ma riflette anche l’orientamento ideologico.

U n orientamento che se già prevaleva in Italia prima della pandemia, dall’espansione del Covid è sostanzialmente incontrastato. Con la pandemia, abbiamo conosciuto uno “Stato provvidenza” pesante e invasivo come mai prima: in parte perché lo stesso Stato che ti impediva di lavorare non poteva poi non compensarti del reddito perduto, in parte perché l’emergenza è una sorta di treno sul quale si sono caricati tutti i progetti di spesa che ammuffivano nelle scrivanie dei ministeri, forse con qualche ragione. Per ora, l’unica voce del bilancio pubblico che non cresce sono gli stipendi della pubblica amministrazione. Ma gli impiegati dello Stato, come tutti, vedono il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione e quindi è inevitabile che si arrivi a un rinnovo del contratto, con conseguenti aumenti salariali.

In questo contesto, il dibattito sulla manovra del governo Meloni sembra veramente miope. Abbiamo capito, quest’anno, perché non si fosse mai votato d’autunno. Perché le liturgie della formazione del governo inevitabilmente portano a trovarsi con tempi ridottissimi per mettere assieme la legge di bilancio, che è poi l’atto principale a cui è chiamato un esecutivo. Così, Meloni e i suoi ministri hanno realizzato una legge non troppo diversa da quella che avrebbe fatto il governo precedente, magari un po’ più prudente perché non hanno stimoli elettorali immediati, aggiungendo una spruzzata di provvedimenti segnaletici per marcare il cambio di passo. La discussione si è centrata tutta su questi ultimi: regime forfettario per gli autonomi, tetto del contante, obbligo del Pos. Si tratta di questioni interessanti, senz’altro, che il governo ha affrontato con lo spirito di premiare i propri elettori (il che è legittimo in democrazia) ma anche cercando di disegnare una propria interpretazione del concetto di libertà economica.

Ma la grande questione con cui questo governo dovrà a un certo punto venire alle prese, specialmente se davvero durerà cinque anni, è proprio l’impronta, sempre più grande, dello Stato nella società italiana. Se il pubblico pesa per metà del prodotto, questo significa che metà delle risorse del Paese sono, tutti gli anni, destinate a un uso oppure all’altro sulla base di decisioni politiche: non di scambi volontari fra persone, come avviene nel settore privato. Siamo sicuri che ministri, parlamentari e burocrati siano più adatti a deciderne l’impiego, che ciascuno di noi? Possiamo veramente supporre che essi lo facciano, sempre, sulla base di un qualche disegno di interesse pubblico, e non invece per avvantaggiare i gruppi a loro più contigui?

L’Italia è un Paese la cui bassa crescita, negli ultimi trent’anni, si spiega con la stagnazione della produttività. Ma attenzione: quasi per definizione, gli incrementi di produttività nel pubblico sono, se non impossibili, rarissimi. Proprio perché le risorse statali sono impiegate non in vista di un obiettivo economico (fare profitto) ma avendo in testa obiettivi politici (preservare il consenso). Accrescere la produttività richiede azioni (sostituire lavo ro umano con macchinari, cambiare mansioni alle persone, sviluppare nuovi prodotti e migliorare i processi) che sono incompatibili con la logica politica. Allo Stato, qualsiasi gruppo chiede “certezza”. La produttività cresce se sappiamo navigare il mare dell’incertezza.

Di che incrementi di produttività potremo beneficiare, se la metà del Pil è controllata dallo Stato? L’elevata spesa pubblica rappresenta un macigno sulla crescita. L’Italia non era un Paese a bassa spesa e tuttavia per anni ha cercato di tenerla sotto controllo. Il governo Conte, prima, sulla spinta dell’emergenza, e il governo Draghi. poi, nonostante il rimbalzo post-Covid, non hanno saputo far altro che aumentarla. Tocca a Meloni provare a invertire la tendenza.

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni

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