G iorgia Meloni è andata a Kiev, finendo necessariamente nel cono d’ombra dopo la visita del Presidente americano Biden. Ma la premier italiana non poteva mancare questo appuntamento. La sua agenda, nei mesi scorsi, è stata in larga misura dettata dalla necessità di accreditarsi agli occhi della comunità internazionale, a cominciare dagli Usa. L’Italia è un Paese periferico, il cui ruolo sullo scacchiere internazionale è poco rilevante. Il centrodestra italiano è meno ostile nei confronti della Russia di quanto non lo siano coalizioni della medesima area politica, altrove.

M a simpatizzare per la Russia sarebbe costato caro ai partiti oggi al governo senza intaccare minimamente gli equilibri internazionali. Meloni recita un copione che è l’unico possibile per un presidente del Consiglio.La visita di Biden a Kiev, a un anno dallo scoppio delle ostilità, ha ulteriormente imbrogliato le carte.Biden ha fatto un gesto spericolato: ha legato apertamente il suo destino, ovvero la rielezione, a quello della guerra. A Kiev comincia la sua campagna elettorale. Biden ha però anche stroncato, con l’abbraccio a Zelensky, qualsiasi possibilità di usare l’anniversario della guerra per trarne un bilancio: per comprendere come effettivamente stanno andando le cose e perché. Durante le guerre, purtroppo, non possono prevalere il distacco e l’obiettività.

La guerra fra Ucraina e Russia ripropone, con intensità ancora più elevata, alcuni dei tratti tipici dei conflitti degli ultimi anni (esplorati con esemplare rigore analitico in un recente libro di Alessandro Colombo, “Il governo mondiale dell’emergenza”).C’è un che di paradossale. Quando l’invasione ha avuto inizio, un anno fa, alcuni commentatori si erano affrettati a dichiarare l’imminente “ritorno della storia”. Nella storia le guerre sono divampate per i motivi più diversi, ma di solito erano conflitti fra potenze, a ciascuna delle quali venivano riconosciuti degli obiettivi, necessaria premessa per poter provare a cucire assieme delle mediazioni. Ora le guerre sono tutte o quasi “conflitti di civiltà” e l’autorappresentazione dell’Occidente è sempre quella della dolorosa necessità di venire alle prese con elementi patologici, che vanno rimossi prima che possano infettare il resto del mondo. Dalla guerra al terrore all’asse del male alla frusta riproposizione della categoria del “fascismo” o delle “autocrazie”, le guerre non sono più eventi fra controparti chiaramente delineate, ciascuna mossa dal proprio (talora esecrabile) interesse, ma momenti terapeutici, tappe verso la sanificazione del mondo. La reazione a una ferita nel diritto internazionale, come indubbiamente è stata l’invasione dell’Ucraina, richiede una risposta. Il buon senso (lo stesso usato, solo una manciata di anni fa, da Merkel e Obama) consiglierebbe di circoscrivere l’impatto a meno persone possibile. Se però pensiamo di essere innanzi a una battaglia cruciale per il futuro della democrazia, anziché a una questione territoriale, la conseguenza è l’escalation, in primis retorica ma non senza conseguenze. Ogni principio di proporzionalità salta.Ciò a maggior ragione perché la tecnologia limita i costi in termini di vite umane (e il fastidio di dover placare un elettorato ansioso per la sorte dei suoi figli, stile Vietnam) e trasforma il conflitto in un gigantesco videogioco. Quando poi a combattere sono altri, e il nostro ruolo è “solo” quello di fornire armi ed evitare quanto più possibile le relazioni con i “cattivi”, nulla frena l’istinto di fare il tifo. Che è quello che è avvenuto nell’opinione pubblica italiana, per esempio.La ragione sta dalla parte degli aggrediti: ma ta nto basta per consegnare loro il monopolio della verità? Per la prima volta i giornali si fanno con dispacci che provengono da una parte sola. Quante siano le perdite dell’esercito ucraino, per esempio, non lo sa nessuno. Si tratta di un dato non proprio irrilevante, per ragionare sulle prospettive del conflitto.A dire il vero, non è nemmeno chiaro che cosa si proponga la Nato. Quali rapporti con la Russia, e poi con la Cina, desideriamo avere? Veramente desideriamo che di nuovo sul mondo scenda una cortina di ferro? Siamo proprio convinti che i cittadini di un Paese che ha la sventura di avere un governante dispotico, meritino di essere esclusi dall’economia globale? Cosa vogliamo fare, a parte dimostrare di stare dalla parte dei buoni? La risposta è oggi meno chiara, e non più evidente, di dodici mesi fa.

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